Gian Enzo Sperone
Leggi i suoi articoliHo visto per la prima volta le opere di Corrado Cagli nel 1961, durante il mio apprendistato nella migliore galleria d’arte torinese «La Galatea», di cui oggi si parla poco, ma che nel 1957 fece la prima mostra di Francis Bacon in Italia e subito dopo Alberto Giacometti. Non ne sono rimasto particolarmente impressionato; si sa a vent’anni si subiscono condizionamenti imprevisti e improvvisi come una folata di vento, ma non se ne è coscienti; era appunto il momento di Francis Bacon, Robert Rauschenberg e Jasper Johns e tutto questo sì mi colpiva e mi esaltava.
Loro tiravano spadate e Cagli giocava di fioretto. In pittura non è sempre un bene: in pittura, quello che corre sottotraccia è come l’acqua che si disperde a rivoli e gocce; io non avevo gli strumenti né il tempo per fare il geologo culturale e mi «bevevo» piuttosto quell’acqua che scendeva scrosciando in superficie. Nel 1935, la contessa Mimì Pecci Blunt fondava a Roma la galleria «la Cometa» che sotto la spinta di Corrado Cagli e Libero de Libero, avrebbe esposto i migliori pittori fra cui de Chirico, Severini, Pirandello, Cagli, Capogrossi nonché i fratelli Basaldella, Afro e Mirko (quest’ultimo avrebbe sposato in seguito la sorella di Cagli).
Questi artisti tra il classico e la trasgressione venivano spesso presentati da letterati tra i più promettenti, tra cui Moravia, Savinio e Massimo Bontempelli (zio di Corrado Cagli) piuttosto che da critici d’arte. La galleria era di gran lunga la più sofisticata dopo quella di Giuseppe Sprovieri del 1913 e il centro d’arte Bragaglia del 1918, assordanti entrambi tirando sportellate, ma ormai non erano che i silenziati ricordi della mitologia futurista. Poi arrivarono gli sfrontati e beceri attacchi antisemiti di Telesio Interlandi su «Il Tevere», come preludio alle leggi razziali del 1938. La galleria chiuse non senza aver tentato prima di sdoppiarsi a New York, ma senza fortuna.
Non posso sottrarmi dal rivendicare un piccolo primato personale. Si sarebbe dovuto aspettare 35 anni prima che un’altra galleria italiana aprisse i suoi battenti a New York: la mia, nel 1972 ancora operante oggi. A onor del vero, c’era già stato Federico Quadrani un po’ prima, ma la sua galleria apparteneva alla moglie Odyssia Skouras, il nome era greco e i due erano da tempo residenti americani, io invece vivevo piuttosto sugli aerei italiani.
Lì a New York, si trasferì nel 1939 armi e bagagli Corrado Cagli, il giovane ebreo marchigiano spavaldo e anche un po’ impudente. Saltando le usuali frequentazioni come si usava allora con i pizzaioli, gli anarchici, e i «Good-Fellas» a Little Italy si buttò anima e corpo nelle sperimentazioni del balletto moderno, frequentando George Balanchine, Igor Stravinskij e Lincoln Kirstein. Con l’energia visionaria di Lincoln (che ho sperimentato pure io in un incontro a metà degli anni ’70) sarebbe nato nei primi anni ’40 il New York Ballet, oggi l’apprezzatissimo New York City Ballet che non ha mai cessato di esplorare e stimolare il misterioso mondo del balletto moderno.
Non era mica roba da poco, o per tutti, ma Cagli, sconosciuto emigrante italiano, ne curò le prime scenografie. Era infatti innamorato del teatro moderno: tra l’altro aveva già conosciuto Stravinskij a Roma a casa Pecci Blunt. Il grande musicista tornava a Roma volentieri; già nel 1917 era stato presentato il suo «Feu d’Artifice» con la scenografia del rivoluzionario «fanciullo» Giacomo Balla. Sulla scena, a parte girandole di luci improvvise, cangianti e incongrue, non succedeva assolutamente nulla.
Tra Roma e Napoli Stravinskij lavorò di nuovo nel 1917 con Picasso per «Parade» di Erik Satie (alla ricerca di suoni cacofonici) con testi di Cocteau e coreografie di Léonide Massine, il danzatore coreografo più vicino a Diaghilev dei Balletti Russi; ho conosciuto a New York la figlia Tatiana che mi ha colpito per la sua fissità ieratica. A proposito di «Parade» è noto l’episodio dello scansato arresto di Picasso e Stravinskij sorpresi da un gendarme a fare pipì all’interno della galleria Umberto I, proprio di fronte al Teatro San Carlo.
Due divagazioni tanto per contestualizzare, di cui una piuttosto una civetteria personale. La contessa, nipote del papa Leone XIII (Pecci) ospitò ripetutamente negli anni ’30 e ’40 letterati e musicisti di rango tra cui Stravinskij e Francis Poulenc; sposata a un ricco ebreo americano Ceci Blumenthal, abitò con lui in questo loro splendido palazzo «manierista» all’Aracoeli (prima Fani, poi Ruspoli, vi soggiornò a lungo il cardinale Federico Borromeo nel 1599, poi Pecci Blunt e in seguito Aldobrandini). Io, si parva licet, sono entrato nel palazzo nel 1973 con un quadro di Andy Warhol, «Sedia elettrica» per uscirne con un assegno dell’allora proprietario il principe Francesco Aldobrandini; meglio che un invito a cena dove sarei stato probabilmente soverchiato da qualche pittore o musicista.
Nei luoghi con alti sedimenti, la cultura è sempre di casa, ma ognuno occupa un suo posto ben preciso, secondo antiche regole non scritte ma ferme.
Io ero ben (?!) visto come rampante gallerista d’avanguardia nonché come amico di Umberto Eco, Verde Visconti e Claudia Ruspoli discendente degli antichi padroni.
Mi ricordo la gioia per essere stato subito accolto dalla intellighenzia romana e insieme dall’aristocrazia più papalina e conservatrice.
Dai numerosissimi visitatori e «Grand Tourist» che come me vennero a calpestare i selciati romani sin dai tempi antichi è nato il mito e il sogno di essere viandanti a Roma almeno una volta.
Corrado Cagli, non pago delle esperienze artistiche, dopo essersi arruolato nell’esercito americano nel 1941 si trovò senza molti preamboli tra le truppe destinate allo sbarco in Normandia il 6 giugno 1944. Sopravvisse miracolosamente e riprese in mano i pennelli, per nostra fortuna. Diventò quello che era sempre stato (la cosa più difficile è diventare quello che sei, cit. Nietzsche) anzi di più, un inveterato, intemerato, accanito cesellatore di linguaggi, uno sperimentatore seriale.
Espose nelle migliori gallerie newyorchesi dell’epoca, in particolare quella di Julien Levy che negli anni ’30 e ’40 espose tra i primi i surrealisti Man Ray, Duchamp, Alfred Stieglitz nella sua sede di 602 Madison Avenue. Lì proiettò anche in prima assoluta le «Chien Andalou» di Luis Buñuel e Salvador Dalí.
Nel 1934 presentò Giacometti e nel 1936 la prima mostra di de Chirico (con un lascito enorme di corrispondenza). Per chiudere, espose Frida Kahlo e nel 1945 Arshile Gorky. Dopodiché cessò l’attività dedicandosi all’insegnamento presso la State University of New York a Purchase; molto irrituale.
Aveva appena conosciuto il giovane Jackson Pollock che, invitato nel 1942 a esporre con i surrealisti, declinò l’invito definendoli degli antiamericani. In questo ambientino sguazzava Corrado Cagli anche lui europeo come quasi tutti gli artisti di Levy. Tra i surrealisti circolava la leggenda che si poteva partecipare al movimento solo con atto di adesione intellettuale e morale per poter portare un «occhio nuovo». Cagli espose anche all’Arts Club di Chicago e al museo di San Francisco.
Poi a causa di una potente botta di nostalgia per Roma, riportò il suo corpo americano nel paesaggio desolato di un’Italia del dopoguerra distrutta dalle bombe. Funambolo del linguaggio come della vita, è entrato fatalmente in un limbo culturale dove regnava il si salvi chi può. Una grossa mano gliela diede la sua brillantezza; si sa da sempre che gli artisti brillanti e meno vocati alle regole della riconoscibilità immediata del linguaggio hanno poca fortuna; e poi c’è il fattore distrazione di una borghesia che poteva finalmente tirare un sospiro di sollievo e comunque mal tollerava molestie linguistiche.
Negli anni a venire, hanno prevalso gli incursori, un po’ urlatori e un po’ sciamani che si nutrivano di infrazioni, qualche volte disordinate.
Cagli non era nessuno di questi e, per ragioni ancora da chiarire, la galleria l’Obelisco di Roma, la migliore di quegli anni del dopoguerra, forse non amava la pittura di Cagli così piena di slittamenti e oscillazioni e con una punta di «spleen» tipico degli artisti apolidi. In qualche modo un aggravamento.
Altri articoli dell'autore
Per il gallerista e collezionista torinese le opere bisogna farle circolare, scambiarle e condividerle. Anche se non ci si vorrebbe mai separare da loro
Visita della mostra al Mart di Rovereto in compagnia del collezionista
A Gian Enzo Sperone, amico personale di antica data, che aveva condiviso la sua passione vivace e intensa per l’arte, abbiamo chiesto un ricordo che ci ha dettato poche ore dopo la scomparsa dell’imprenditore
John Richardson e Goffredo Parise, Massimo Mila e Robert Rosenblum, Leo Castelli, Moravia e Arbasino: incontri e racconti del celebre gallerista «pendolare» quando New York creava il suo mito e Roma e Torino producevano cultura