Zanele Muholi contro i pregiudizi
Nell’antologica alla Tate Modern tutta la produzione dell’artista sudafricana
«Quello che mi importa di più è il contenuto, chi c’è nella fotografia, perché è lì». Tutta la ricerca di Zanele Muholi (nata nel 1972 a Umlazi, vicino a Durban, e residente a Johannesburg) si misura con i pregiudizi di razza e di genere, con gli stereotipi del potere eteropatriarcale che in Africa stritola la libertà delle comunità Lgbtqia.
Questo è il campo dove si muove l’artista africana, attivista visiva, come lei stessa si definisce, impegnata a mappare l’esistenza invisibile di gay e lesbiche nere per riscrivere la loro storia in Sud Africa, minando la retorica che considera l’omosessualità aliena alla cultura africana, pericolo da colpire con la pianificazione politica.
«Zanele Muholi» è l’antologica che la Tate Modern le dedica dal 5 novembre al 7 marzo, curata da Yasufumi Nakamori con Sarah Allen e Kerryn Greenberg (in collaborazione con la Maison Européenne de la Photographie, il Gropius Bau e il Bildmuseet).
In 260 fotografie si percorre tutta la produzione dell’artista, quasi esclusivamente in bianco e nero, dall’esordio intimo e scabroso di «Only Half a Picture» nel 2006, contro il modello convenzionale della sessualità femminile nera; fino a «Somnyama Ngonyama», serie in corso dal 2014, sorta di manifesto contro razzismo e discriminazione. Tra l’uno e l’altro scorrono i lavori più incisivi.
Tra questi, «Faces and Phases» vuole essere un archivio fotografico avviato nel 2006 per dichiarare l’esistenza di centinaia di individui Lgbtqi in Sud Africa: i soggetti, inquadrati per lo più a mezzo busto, fissano l’obiettivo affermando una presenza politicamente ingombrante; «Being» è un esplorazione a colori del piacere privato della coppia, e della possibilità di resistere alle costrizioni sociali per ritrovare la propria integrità; mentre «Brave Beauties» celebra la seduttività transgender attraverso le bellezze che sfilano nei ritratti, molte vincitrici del concorso Miss Gay.
Ma l’opera per la quale è più nota al pubblico resta «Somnyama Ngonyama» («Hail the Dark Lioness» in lingua Zulu), dove la Muholi si concentra sul tema della razza e della sua rappresentazione, lungo quella che dovrebbe diventare una sequenza di 365 autoritratti, un sé diverso per ogni giorno dell’anno.
Tra richiami alla moda, alla ritrattistica classica e alla performance, si mette in posa con ornamenti fatti di oggetti comuni, mollette per i panni, guanti in lattice, spugne, fascette in plastica che diventano materiale di scena caricato di valenze politiche, mentre accentuando il tono scuro della pelle rivendica ancora il suo essere nera.