«Puzzle Bottle», 1995, di Charles Ray. © Charles Ray, cortesia dell’artista. Foto © 2020. Immagine digitale Whitney Museum of American Art. Cortesia di Scala

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«Puzzle Bottle», 1995, di Charles Ray. © Charles Ray, cortesia dell’artista. Foto © 2020. Immagine digitale Whitney Museum of American Art. Cortesia di Scala

Uno, due, tre Charley. Ray non solo a New York

Nei giorni della mostra al Met, a Parigi l’artista si sdoppia e si clona in due sedi (Pompidou e Bourse) rimanendo fedelissimo seguace della scultura classica e del perfezionismo formale

Chi non ricorda «Boy with frog», la statua del ragazzino con la rana che nel 2009 era stata collocata a Punta della Dogana per l’inaugurazione del secondo museo veneziano di François Pinault, rimossa poi con qualche polemica nel 2013 per ricollocare al suo posto il lampione ottocentesco?

La scultura, commissionata dal magnate e collezionista francese a Charles Ray, è ora tra le opere di punta di una doppia monografica organizzata, dal 16 febbraio, da due grandi istituzioni parigine, una pubblica, il Musée National d’Art Moderne del Centre Pompidou, l’altra privata, la Bourse de Commerce, sede della Pinault Collection nella capitale francese.

La mostra del Pompidou (fino al 20 giugno), a cura di Jean-Pierre Criqui e Annalisa Rimmaudo, esplora le opere di Ray dagli anni ’70-80 agli anni 2000. Tra queste, la natura morta «How a Table Works» (1986), l’uomo nella bottiglia «Puzzle Bottle» (1995), il manichino gigante «Fall ’91» (1992) e «Hinoki» (2007), un tronco d’albero spezzato, per la prima volta presentato da un museo fuori dagli Usa.

La mostra della Bourse de Commerce (fino al 6 giugno), curata da Caroline Bourgeois e incentrata sul tema della figura umana, propone 17 sculture realizzate tra gli anni ’90 e oggi, sei delle quali inedite. Uno dei principali materiali di lavoro dell’artista è il suo stesso corpo, come nel famoso e provocatorio gruppo scultoreo «Oh! Charley, Charley, Charley...» (1992) in cui Ray si «clona» otto volte.

Sono allestiti anche «Tabletop» (1988), «Study after Algardi» (2021), ispirata al Crocifisso di Alessandro Algardi del 1646 ca, e una serie di sculture in acciaio come «Sleeping Woman» (2012). Il lavoro di Ray (nato a Chicago nel 1953, vive a Los Angeles), è caratterizzato dalla tensione verso la perfezione formale dove la ricerca dell’equilibrio, come nella scultura classica, si coniuga a una dimensione concettuale, enigmatica, oltre che all’utilizzo di tecniche e materiali moderni quali la fibra di vetro, l’alluminio o l’acciaio levigato.

«Charles Ray esplora sempre più apertamente l’immenso repertorio tipologico e iconografico che la storia dell’arte ci ha lasciato in eredità, ha osservato il curatore Jean-Pierre Criqui. Davanti alle due versioni di “Mime”, del 2014, in alluminio e legno, come non pensare all’“Arianna addormentata” del Vaticano o all’“Ermafrodito” del Louvre? I due uomini di “Doubting Thomas”, del 2012, non ricordano forse il modo in cui Verrocchio trattò il tema dell’incredulità di san Tommaso? Inoltre, “Portrait of the Artist’s Mother” discende in modo evidente dalle Veneri sdraiate di Giorgione e Tiziano o dall’“Olimpia” di Manet».

Tutto si riassume intorno a una domanda: che cos’è una scultura? «Una scultura s’inserisce nello spazio-tempo, ha osservato Ray, protagonista in contemporanea anche di una personale al Metropolitan Museum di New York («Figure Ground», fino al 5 giugno). Si integra non solo nel complesso culturale che gli è contemporaneo, ma anche in quello passato e in quello futuro. Il suo essere presente, in una cultura, induce un qui e ora. La scultura integrata persiste non solo materialmente ma anche culturalmente come generatrice di senso».

«Puzzle Bottle», 1995, di Charles Ray. © Charles Ray, cortesia dell’artista. Foto © 2020. Immagine digitale Whitney Museum of American Art. Cortesia di Scala

Tra le sue opere in mostra al Pompidou, Charles Ray ha scelto e commentato per «Il Giornale dell’Arte» questa: «“Clothes pile” è una scultura che ho iniziato molti anni fa. I vestiti ammucchiati sono miei, me li sono tolti per fare la scultura. Forse proprio perché erano i miei vestiti non mi mancano, vedendoli nella scultura. È un’opera figurativa? È in alluminio e delicatamente dipinta di bianco. Non sono sicuro di avere o meno un’anima, ma quando guardo questa scultura mi piace pensare di trovarmi fuori da me stesso». Foto Josh White © Charles Ray. Cortesia della Matthew Marks Gallery

Luana De Micco, 15 febbraio 2022 | © Riproduzione riservata

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