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Una moltitudine integrata

Stefano Luppi

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Carla di Francesco, alta dirigente del Mibact, è stata l’ultima direttrice regionale dell’Emilia-Romagna pre-riforma Franceschini. In carica dal 2004 al 2015, qui esamina la situazione culturale in Emilia-Romagna partendo dalla valutazione del nuovo Segretariato del Mibact, nato dopo la riforma, a proposito del quale spiega: «Le Direzioni regionali, figlie della politica di decentramento attuata dalla seconda metà degli anni Novanta, erano vere e proprie Direzioni generali del Ministero sul territorio regionale, enti sovraordinati rispetto a soprintendenze, archivi di Stato, biblioteche. Svolgevano funzioni di tipo amministrativo (personale, programmazione, appalti) ma anche tecnico, in relazione soprattutto a tematiche di tutela e valorizzazione di beni culturali e paesaggio a valenza intersettoriale e regionale».

Architetto Di Francesco, come valuta la nascita del nuovo Segretariato del Mibact dopo la Riforma?

Le vecchie Direzioni regionali hanno lavorato molto soprattutto con Regioni e soprintendenze: su proposta di queste ultime emanavano decreti di tutela di beni culturali, autorizzavano alienazioni, esprimevano pareri su progetti complessi, si occupavano di pianificazione paesaggistica, di accordi a diverse finalità con Regioni, Provincie e Comuni. Che non tutto fosse perfetto nel modello organizzativo ministeriale di allora era noto. La coesistenza delle Direzioni generali centrali, competenti per materia (architettura, beni storico artistici, archivi, archeologia) con le Direzioni regionali creava talvolta sovrapposizioni di procedure interne, e inevitabili rallentamenti. Una certa insofferenza generale da parte degli istituti, in relazione a diverse leve di comando era palese. Dopo dieci anni, i problemi erano ormai noti e potevano essere risolti coinvolgendo concretamente le forze interne in una riflessione sistematica e generale. Ma, sembra strano, proprio il nostro Ministero ha ignorato la storia. Con l’istituzione dei Segretariati Regionali si è infatti preferito ritornare a quel coordinamento che già era stato sperimentato con le soprintendenze regionali tra il 2001 e il 2004: generico, sfumato, poco efficace, tanto più se, come ora dopo l’ulteriore riforma 2016, messo insieme alle soprintendenze uniche, le quali ormai possono esercitare al loro interno tutte le competenze di tutela intersettoriale, ai musei autonomi e ai Poli museali. Non dimentichiamo poi che tutto questo avviene parallelamente alla diminuzione vertiginosa del personale. Se il decentramento non è più un obiettivo, perché allora non tornare all’organizzazione ministeriale storica fatta di soprintendenze, archivi, biblioteche sul territorio e le Direzioni generali a Roma?

Come valuta i musei, le gallerie e le proposte espositive nella regione?

Tante realtà locali, ognuna con una propria vocazione derivante dal patrimonio pervenuto dalla storia e una programmazione che integra musei, monumenti, siti archeologici, mostre, manifestazioni. Difficile una valutazione complessiva. Mi limito a segnalare il «fenomeno» Forlì: il recupero del grande complesso di San Domenico e le mostre, di grandissima qualità, frutto di una programmazione di metà anni Novanta portata a compimento con lungimiranza e pazienza dai diversi governi cittadini. Ferrara e le mostre del Palazzo dei Diamanti sono un punto di riferimento certo non solo regionale. In generale, si nota la crescita dell’attività quotidiana di valorizzazione dei piccoli musei e siti statali a seguito della riforma del 2014, sia pure nella perdurante difficoltà di vera integrazione con i sistemi cittadini.

Vasco Errani è appena stato nominato a capo della ricostruzione dopo il terremoto nel centro Italia. Lei ha operato molto dopo il sisma del 2012: qual è la situazione attuale in Emilia-Romagna? 

Il processo di ricostruzione dopo un sisma come quello dell’Emilia è inevitabilmente lungo, una prospettiva di dieci anni è realistica. Quelle che normalmente vengono definite «lungaggini burocratiche» altro non sono che il tempo necessario ai diversi attori responsabili della ricostruzione per garantire il rispetto del complesso delle leggi e delle norme che regolano gli interventi. Piuttosto che dei tempi, l’opinione pubblica si dovrebbe preoccupare della qualità della ricostruzione, anche ricreando un clima di fiducia nei confronti degli operatori. Rimanendo nel campo dei beni sottoposti a tutela, i riferimenti fondamentali (il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, articolo 29, e le Linee guida per la valutazione e la riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale) ci conducono al concetto di miglioramento strutturale, diverso dal concetto di adeguamento. Per ciascun edificio monumentale si tratta di applicare un metodo per la valutazione della capacità di resistenza delle strutture e quindi compiere le scelte progettuali per raggiungere il livello di miglioramento compatibile con la specificità del bene e del suo stato di conservazione. La ricostruzione, o riparazione del danno, è un’operazione compresa nel restauro, adotta materiali e tecniche della tradizione edilizia, supportati da nuove tecnologie, ma sempre nell’ottica del minimo intervento. Non si tratta quindi solo di calcoli, ma di valutazioni e scelte che i progettisti compiono e che devono essere condivise e approvate dalla Commissione congiunta della quale fanno parte la Struttura tecnica del Commissario, la Soprintendenza, il Servizio Sismico della Regione Emilia-Romagna. La Commissione si pone infatti come unico interlocutore su temi di tutela, di sismica e di finanziamenti pubblici. Lo scopo di tutto questo lavoro non è la burocrazia, è la garanzia per la comunità.

Stefano Luppi, 04 ottobre 2016 | © Riproduzione riservata

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