Anni Albers, «Sheep May Safely Graze», 1959. Museum of Arts and Design, New York. Dono di Karen Johnson Boyd, mediante l'American Craft Council. © 2021 The Josef and Anni AlbersFoundation/Artists Rights Society (ARS), New York/ADAGP, Paris 2021

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Anni Albers, «Sheep May Safely Graze», 1959. Museum of Arts and Design, New York. Dono di Karen Johnson Boyd, mediante l'American Craft Council. © 2021 The Josef and Anni AlbersFoundation/Artists Rights Society (ARS), New York/ADAGP, Paris 2021

Una gioiosa setta con due soli adepti: gli Albers

Dall’imperdibile mostra del Musée d’Art Moderne un messaggio prezioso: «Impariamo dall’opera d’arte il coraggio di esplorare luoghi dove prima di noi nessuno è stato»

Amore a prima vista, arte tutta la vita. La storia, la vita, la passione che racconta l’inscindibile coppia Anni e Josef Albers è una di quelle vicende capaci di strabiliare per continuità, coerenza, diversità nell’unità, comunione, sorpresa. Dunque non solo è pertinente, ma, per la prima volta, davvero efficace e dovuto che la grande esposizione aperta al Musée d’Art Moderne di Parigi non solo riunisca i due in un’unica, grande mostra (fino al 9 gennaio), ma che s’intitoli come meglio non si potrebbe e si dovrebbe, nel loro caso, «L’arte e la vita». Perché hanno fatto della vita arte e viceversa; intrecciando interessi e viaggi, amicizie e incontri, lezioni e passioni, ma sempre cementando la loro unione con una parola che, entrambi, usavano spesso, nelle interviste per qualificare il legame: «rispetto».

Ecco: nelle oltre 350 opere radunate in questo profluvio di quadri, tessiture, mobili, fotografie, design, gioielli, sperimentazioni geometriche, opere di interesse religioso, filmati di lezioni, appunti sparsi, lettere, citazioni e molto altro ancora, la curatrice Julia Garimorth, con la sapiente regia di Nicholas Fox Weber (direttore della Albers Foundation, con sede a Bethany nel Connecticut), che le è stato di fondamentale aiuto, hanno saputo restituire la complessità degli interessi e dei riverberi nella vita dei due artisti che le attrazioni e le infatuazioni momentanee e durature hanno avuto su di loro.

Così, se una sezione significativa è dedicata ai loro viaggi in Messico, tappa fondamentale della loro vita e unione (con foto e una collezione di arte precolombiana di tutto rispetto: ovvio, ci vedevano, chiaramente, l’astrattismo e il geometrismo del Novecento, dal quale provenivano, ma con secoli di anticipo), dall’altra ci sono i rispettivi interessi: Josef e la sua teoria dell’interazione del colore (con gli oltre 2mila quadri, «Omaggio al quadrato»; qui ce ne sono un numero sufficiente a dare un’idea ma certamente meno di cento), Anni con la sua superba opera e teoria della tessitura che culmina in un lavoro di commovente profondità: i sei pannelli, tessiture pittoriche, che le vennero commissionate nel 1965 dallo Jewish Museum di New York, per onorare la memoria dei sei milioni di ebrei morti nella Shoah.

E, ovviamente, c’è tutto di loro. Il loro incontro: nell’ambito del Bauhaus, dove Anni dovette fare domanda di ingresso per due volte, perché fallì il primo esame di ammissione. Lui, Josef, figlio di una modesta famiglia di artigiani di Bottrop, un paesino minerario che Anni non aveva mai sentito nominare (né ci volle mai mettere piede, finché Josef fu in vita), lei una bella ragazza contro le mode, figlia di un’agiata famiglia ebrea, cresciuta nella cosmopolita Berlino. Quell’idillio, nato nei giardini, nelle aule e nelle case del Bauhaus non sarebbe mai venuto meno: Anni e Josef hanno coltivato i loro valori con tenacia e gioia.

Nell’allestimento addirittura strabordante della mostra parigina (che poi si trasferirà a Valencia), la loro vicenda è ripercorsa con dovizia di particolari e molti pezzi mozzafiato. L’aria che si respira è quella di un modernismo non solo attuale, ma addirittura futuro. Gli intrecci, i nodi, i labirinti, tutti temi che intersecano la loro carriera artistica tornano e si moltiplicano nelle iridescenze delle opere alle pareti e nelle teche: davvero era il caso di predisporre una mostra «collettiva» di quella particolare setta che ebbe due e solo due adepti per sempre, Anni e Josef.

Al muro, di tanto in tanto, alcune frasi scandiscono il viaggio del visitatore nel loro universo. Dice Anni: «Impariamo il coraggio dall’opera d’arte. Dobbiamo esplorare luoghi ove prima di noi nessuno è stato». Le risponde Josef, profetico, apologetico e di eterna attualità: «Imparate a vedere e sentire la vita; vale a dire, coltivate l’immaginazione, poiché nel mondo vi sono sempre delle meraviglie, perché la vita è un mistero e sempre lo sarà. Siatene consapevoli». Se aveste una sola mostra da vedere da qui alla fine dell’anno, questo è il posto dove andare.

Anni Albers, «Sheep May Safely Graze», 1959. Museum of Arts and Design, New York. Dono di Karen Johnson Boyd, mediante l'American Craft Council. © 2021 The Josef and Anni AlbersFoundation/Artists Rights Society (ARS), New York/ADAGP, Paris 2021

Josef Albers, «4 Central Warm Colors Surrounded by 2 Blues», 1948. Josef Albers Museum Quadrat Bottrop. © 2021 The Josef and Anni Albers Foundation/Artists Rights Society (ARS), New York/ADAGP, Paris 2021

Stefano Salis, 22 ottobre 2021 | © Riproduzione riservata

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