Cecilia Alemani. Foto Andrea Avezzù. Cortesia La Biennale di Venezia

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Cecilia Alemani. Foto Andrea Avezzù. Cortesia La Biennale di Venezia

Una Biennale femminile, ma non femminista

Cecilia Alemani racconta la genesi della sua mostra, ispirata al Surrealismo di Leonora Carrington, avrà quadri, sculture, oggetti e pochissimi video, di 213 artisti (180 al loro debutto)

L’uomo non è più al centro di tutte le cose, ma non parlatele per questo di Biennale femminista. Con «Il latte dei sogni» - 59esima edizione della Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, appena presentata e in programma dal 23 aprile al 27 novembre tra i Giardini e l’Arsenale, Cecilia Alemani annuncia una mostra ad altissimo tasso di partecipazione femminile, smentendo «la presunta idea universale di un soggetto maschio, “uomo della ragione” come centro dell’universo e misura di tutte le cose».

Ma non vuole etichette per l’esposizione da lei curata, che prende il titolo da un libro di fiabe della surrealista Leonora Carrington, colmo di creature fantastiche e che guarda alla metamorfosi del corpo e della sua identità anche sessuale.

Direttrice Cecilia Alemani, c’è già chi parla di una Biennale Arte femminista.
Non mi piace questa etichetta, anche se in mostra ci sono certamente artiste femministe, ma anche non. Il femminismo viene interpretato diversamente nei vari Paesi, ci sono già state mostre eccellenti sull’arte femminista, come ad esempio qualche anno fa «Radical Woman» all’Hammer Museum di Los Angeles. Ma non è il caso della mia Biennale che pure avrà, per precisa scelta, un altro tasso di partecipazione femminile.

Presentando anche le cinque «capsule» storiche (mostre tematiche che accompagneranno il percorso centrale creando confronti con gli artisti contemporanei esposti), lei ha però messo in evidenza come siano anche una sorta di «risarcimento critico» per le artiste spesso dimenticate di vari movimenti, dal Surrealismo all’Arte Programmata.
Non è certo mia intenzione riscrivere la storia dell’arte, ma credo che un approfondimento storico sia necessario, vedendo che delle artiste di movimenti come il Bauhaus, il Surrealismo o l’Arte Programmata si parla pochissimo. Ho scoperto un dato per me sconvolgente, come quello che vede in quaranta edizioni della Biennale Arte del primo secolo di vita dell’istituzione presenti in esposizione solo un dieci per cento di artiste. Non pretendo di riequilibrare la media con la mia edizione, solo di dare loro lo spazio che meritano.

L’ispirazione al libro della Carrington per il titolo della mostra, e l’insistenza sul fantastico e sul tema della modificazione dei corpi, della creazione di forme ibride, tipico del Surrealismo, sono una spinta in questa direzione?
Il Surrealismo è un movimento che mi è sempre interessato molto, ma la pandemia, la crisi che ha innestato, ha spinto molti artisti con cui mi sono confrontata anche nell’ultimo anno a reagire non attraverso la denuncia, ma ricorrendo alla favola e all’immaginazione. Non una fuga dalla realtà, ma un modo di reagire più intimo e introspettivo.

Sono pochissimi le artiste (e gli artisti) già celebrati presenti in mostra, Rebecca Horn, Nan Goldin, Rosemarie Trockel e Simone Leigh tra le altre. È stata una scelta fatta a tavolino o è frutto del suo lavoro di selezione?
Non è stata una scelta deliberata, ma l’impossibilità a causa della pandemia di frequentare le gallerie d’arte e gli spazi espositivi, anche a New York dove vivo, ha certamente influito in questo senso. C’erano poi artisti già presentati nella Biennale Arte precedente di Ralph Rugoff, che proprio per questo non ho riproposto. Ho cercato piuttosto di ampliare i confini rendendo la mostra davvero globale nonostante le difficoltà di spostamento, con artisti provenienti da 58 Paesi.

Non è un mistero che esiste da sempre un rapporto, assolutamente trasparente, tra la Biennale e il sistema dell’arte, la rete di fondazioni, istituzioni e gallerie private che spesso supportano anche finanziariamente gli artisti selezionati, sostenendo ad esempio le costose spese di trasporto. Quelli che il presidente precedente Paolo Baratta chiamava «donors», inserendoli anche in catalogo proprio in nome della trasparenza. Per una mostra che, anche a causa del Covid, costerà per questa edizione circa 18 milioni di euro non è stato un problema «tagliare fuori» buona parte di questo sistema?
Anche se supportano gli artisti per loro conto, le gallerie private non sono «donors», che comunque non sono mancati: istituzioni, fondazione e musei hanno partecipato in modo consistente alle spese per la mostra.

180 artisti su 213 previsti non hanno mai esposto prima alla Biennale. È stata una scelta precisa?
Aggiungo che dei 29 artisti selezionati che avevano già esposto, solo nove sono contemporanei. Ho cercato di allargare il più possibile lo spettro degli artisti, dando spazio a chi a mio avviso lo meritava.

E 26 tra artiste e artisti sono italiani. Era da un pezzo che non si vedeva una partecipazione nazionale così folta nella mostra principale.
Sentivo la responsabilità, essendo parte del sistema, di sostenere gli artisti italiani, non in modo acritico, ma dando spazio a giovani che lo meritavano, come Giulia Cenci, Diego Marcon, Sara Enrico, Chiara Enzo, tra gli altri. Lavorando all’estero so quanto sia difficile per un artista italiano imporsi oltre i confini, per noi più di altri. Sarebbe una grande soddisfazione per me se qualcuno di quelli selezionati per questa Biennale potesse in futuro esporre, per esempio, alla Biennale di Berlino o a New York.

La fine dell’antropocentrismo è uno dei cardini critici della sua mostra. A che cosa deve portare?
A una cultura meno totalizzante e a un’accettazione della diversità, immaginando un mondo in cui si possa coesistere con l’ambiente e in simbiosi con le altre specie viventi. Sono molte le artiste e gli artisti che ritraggono la fine dell’antropocentrismo celebrando una nuova comunione con il non-umano, con l’animale e con la terra. Altri reagiscono riscoprendo forme di conoscenza locali e nuove politiche identitarie. Altri ancora praticano ciò che la filosofa femminista Silvia Federici descrive come il «re-incantesimo del mondo», mescolando sapori indigeni e mitologie individuali in modi non dissimili da quelli immaginati da Leonora Carrington.

Tutto ciò porterà a una mostra inquietante come già prefigura qualcuno?
Assolutamente no. Sarà una mostra piena di vita, molto colorata, concreta e oggettuale. Sarà piena di quadri, di sculture, di oggetti e con pochissimi video. Perché la nuova tecnologia non è detto che debba essere digitale, può essere anche analogica. Non ci saranno opere concettuali, ma che hanno a che fare con la materia, come la grande installazione che raffigura un labirinto di terra proposta dall’artista colombiana Delcy Morelos alle Corderie dell’Arsenale.

La scelta delle cinque «capsule» storiche disseminate nella sua mostra ripropone un confronto con il contemporaneo. Secondo lei è necessario alla Biennale?
Assolutamente sì. La Biennale non può essere solo l’esposizione delle ultime tendenze artistiche, che pure ci saranno, ma deve essere anche un momento di riflessione sulla propria storia. L’ho capito realizzando due anni fa la mostra storica «Le muse inquiete». C’è chi per la mia mostra ha parlato di un confronto con «Identità-Alterità» di Jean Clair, l’esposizione del centenario della Biennale che non ho visto ma che ho tenuto presente, anche perché parla delle trasformazioni del corpo. Ma ho guardato in particolare alla Biennale del’48, quella in cui anche Rodolfo Pallucchini, allora segretario generale, teorizzò la necessità del confronto con le opere del passato come un fatto fondamentale per la mostra.

Normalmente ogni curatore invita anche i Paesi partecipanti alla Biennale con i propri padiglioni a fare proprie nelle loro scelte le tematiche della mostra principale. Spesso con pochi risultati, vista l’autonomia dei Paesi. A lei sembra essere andata meglio visto che, ad esempio, Simone Leigh, selezionata anche per la sua esposizione, sarà la prima artista afroamericana a rappresentare a Venezia il suo Paese. E molte altre nazioni hanno selezionato un’artista donna.
Sì, la Gran Bretagna con Sonia Boyce, o la Francia con Zineb Sedira, prima artista algerina a rappresentare la Francia, o altre. Ma si è trattato di una felice coincidenza, visto che in molti casi le designazioni dei Paesi sono arrivate prima. La presenza dei Padiglioni nazionale resta fondamentale per la Biennale. C’è chi ogni tanto si alza a dire che si tratta di una forma obsoleta, per me è ciò che rende unica la Biennale rispetto a molte altre manifestazioni artistiche nel mondo.

Questo sarà anche l’anno di Documenta a Kassel, con un inevitabile confronto a distanza tra le due manifestazioni. La cosa la preoccupa?
Assolutamente no, anche perché sono certa che saranno due mostre completamente diverse. Da quello che si sa, Documenta sarà una manifestazione molto più radicale, con la partecipazione di collettivi artistici e largo spazio alle performance. Non vedo comunque l’ora di vederla, così come tutte le mostre che in questi ultimi due anni non si sono potute allestire per il Covid.

La Biennale Arte registra negli ultimi anni una crescita costante di pubblico. Si è posta il problema di dover fare anche una mostra «popolare» per attirarlo?
A New York, con l’High Line Art, il programma di arte pubblica che dirigo nell’omonimo parco urbano, abbiamo raggiunto gli 8 milioni di visitatori l’anno, per cui il rapporto con il pubblico non mi preoccupa. Non mi sono posta il problema di assecondarlo, ci possono essere diversi livelli di lettura per una stessa opera.

Rimorsi? È riuscita a fare tutto ciò che si proponeva per questa mostra?
Per l’emergenza legata al virus mi è mancata la possibilità di viaggiare, di andare in Asia e in Africa a vedere gli artisti sul posto, era impossibile. Credo che questa mostra abbracci comunque una visione globale del mondo dell’arte.

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Enrico Tantucci, 07 febbraio 2022 | © Riproduzione riservata

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