Un particolare della partecipazione di Francis Kéré nella sezione «Force Majeure» al Padiglione Centrale dei Giardini. Foto Fabio Oggero

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Un particolare della partecipazione di Francis Kéré nella sezione «Force Majeure» al Padiglione Centrale dei Giardini. Foto Fabio Oggero

Una Biennale avara di risposte a domande profonde e scomode

Padiglione Centrale e Arsenale: troppa arte, troppi video, quasi nessun rendering: la comunicazione prevale sulla progettazione

Per approcciare la mostra principale è forse opportuna una triplice premessa: lo statuto disciplinare dell’architettura è completamente in discussione, compresi gli attori legittimati a trattarne. La «distinzione sfumata tra idee e oggetti», affermata dalla curatrice Lesley Lokko, implica modi di rappresentazione assai diversi tra loro. L’offerta di «pari opportunità», data dalla curatrice a quella parte del mondo che in genere non ha voce, con molte figure giovani, spesso esordienti, sprovviste delle risorse economiche di blasonati partecipanti dai fatturati milionari, designa un confronto impari con gli allestimenti di precedenti edizioni.

Prese di posizione
La guida curatoriale di Lokko è tanto forte nelle linee d’indirizzo, quanto impalpabile e confusa nella regia scenografica. Buona la scelta di partire dal Padiglione Centrale ai Giardini accostando pezzi forti che fanno da padrini ad altrettanti debuttanti. Ma le sale d’ingresso riservate alle introduzioni sono piene solo di citazioni alle pareti. Vieppiù dicasi per l’incipit all’Arsenale: nessun allestimento «coup de coeur», oltre alla negazione della straordinaria assialità delle Corderie per via della suddivisione caotica a zig zag dei «lotti».

Gli stimoli presentati al pubblico dagli 89 partecipanti, età media 43 anni, vanno in molteplici direzioni: dall’approfondita ricerca storica, economica oppure sociale di matrice accademica anglosassone (Baloji, Office 24-7), al report d’indagine sul campo, incrociando analisi del territorio (Estudio A0, Weizman) e data journalism (Killing); dalla riconcettualizzazione di alcuni topoi, dalla casa al totem, alle membrane (Barnes, MOE, Dhaliwal, Vally e Mushabi, Canty), all’interpretazione artistica di storie, fenomeni, costumi (Adeyemo, Camp, Clottey); dalle buone pratiche (Elementerre, Scape) alla costruzione di appartenenze di comunità (Biemann, DAAR, cui è andato il Leone d’Oro), finanche a scenari distopici (Grandeza, Basis). Ne emerge un quadro generale di particolare ricchezza conoscitiva che assume, in chiave geopolitica e storica, i connotati della denuncia e della rivendicazione per i popoli e in nome della salvaguardia dell’ambiente.

Raramente tuttavia tali messaggi riescono a impattare sullo spettatore per via di una latitanza dell’allestimento: troppo affidato al supporto del video (documentario), che genera assuefazione nel visitatore. Una grande mole di lavoro, dunque, spesso restituita in maniera poco efficace e dispersiva. Un caso, però, in cui l’operazione riesce riguarda la lettura di Stephanie Hankey, Michael Uwemedimo e Jordan Weber («Synthetic Landscapes»), inerente le depredazioni ambientali nel delta del fiume Niger, restituite con immagini e suoni cui gli spettatori assistono su un battuto di terra, riciclata da un’opera della Biennale Arte 2022 («Earthly Paradise» di Delcy Morelos), aggregata con semi di mais geneticamente modificati e perline veneziane con cui in passato si barattavano esseri umani.

E l’architettura?
In continuità con la precedente edizione, «How we will live together?» di Hashim Sarkis, questa Biennale suscita domande ancor più profonde e scomode, basate sulla compatibilità sociale e ambientale dei paradigmi della vita occidentale: mette definitivamente in crisi le verità sui «primati» acquisiti e su improbabili «magnifiche sorti e progressive», arricchisce il patrimonio di conoscenze a disposizione, accresce le consapevolezze, così come le responsabilità individuali. Tuttavia questa Biennale è avara di risposte, che vista l’impostazione non potranno trovarsi nell’architettura con la A maiuscola.

In questo steccano alcuni dei pochi big invitati, su tutti Sir David Adjaye, onnipresente in Laguna: da un lato, oscurando la sala affrescata da Galileo Chini all’ingresso del Padiglione Centrale ai Giardini, trasformata in un cinerama degno del «National Geographic» per illustrare quattro suoi progetti; dall’altro, occupando un’ampia seconda sala con una parata di raffinatissimi supermodelli (tutti del medesimo legno) che presentano grandi progetti culturali da far invidia a Mario Botta o a David Chipperfield. In misura minore, ma analoga, stonano anche il cinese ZAO e gli scozzesi Dualchas. I catalani Flores & Prats, invece, individuano il laboratorio del futuro nella manipolazione del patrimonio edilizio del passato (come fanno i cinesi Neri&Hu), replicano l’allestimento di una precedente Biennale trasportando il loro atelier in Laguna e invadendo un’area delle Corderie.

C’è poi chi fa autopromozione di bassa lega, a metà tra il rampante developer e Tecnocasa (Koffi & Diabaté), e chi invece s’impegna alla scala della microcommittenza e dei processi produttivi, tra autocostruzione e industrializzazione degli elementi costruttivi. In particolare, il riferimento va all’impegno decennale di Low Design Office, che presenta un kit di progettazione di piccoli chioschi modulari open source, a partire dal riciclaggio di componenti recuperati da discarica. Sulla strada dell’umiltà, infine, le due partecipazioni più toccanti. A differenza del blasonato collega Adjaye (che non vanta, come invece lui, il Pritzker), Francis Kéré mette in scena una chiara sintesi tra modi di costruzione tradizionali e incongruenze del «moderno», con la prefigurazione di un accogliente spazio domestico per la casa africana del domani, in cui l’abitante possa riconoscersi; efficace messaggio, grazie al nesso tra allestimento e progetto di uno spazio.

Riesce a fare tanto con poco anche Mariam Kamara (atelier masōmī). L’architetta nigeriana occupa poeticamente una grande stanza tinteggiandola di marrone, a mano libera vi disegna a tutt’altezza con il gesso sezioni, piante e prospetti di edifici storici e v’incastra tre elementi decorativi di finestra, oltre a quattro modellini e tre piccoli schermi raffiguranti suoi progetti. Nesso passato-futuro, minimal, low cost: chapeau!

Gli italiani
Tra i «practicioner diasporici», come definisce Lokko la sua brigata, non è facile ambientarsi. Per raccontare un significativo progetto di conversione (dell’ex base Nato di Monte Calvarina a Roncà, Verona, a uso della fondazione Security and Freedom for Europe), AMAA (Marcello Galiotto e Alessandra Rampazzo) presenta un allestimento tanto d’impatto quanto poco comprensibile. A suo agio negli ampi spazi delle Corderie, il collettivo romano orizzontale plasma uno spazio pubblico tra arena e playground nell’ambito di una reinterpretazione di Roma dove la periferia si fa centro: idea buona, ma incompleta.

Decisamente più understated, tendente al «bonjour tristesse», la nostra terza presenza: il progetto del campus scolastico Kappaert, tema su cui BDR bureau (qui, con i belgi carton123) lavora da tempo, è riletto, un po’ troppo concettualmente, esplorando le nozioni di bordo, soglia e confine tra interno ed esterno e tra funzioni diverse.

Che cosa resterà?
Per ogni Biennale è questa la domanda cruciale, il suo impatto. Ricordiamo ancora l’edizione «Reporting from the front» di Alejandro Aravena, alla quale quest’edizione tende approfondendo le domande, ma perdendosi per strada con troppa arte, troppi video e quasi nessun rendering (che non è affatto un male, dato il loro iperrealismo, ma parlando di futuro qualcuno ci stava).

La ricorderemo? Certamente, almeno per il tentativo di ridistribuire opportunità e pesi rispetto al Sud del mondo. È una Biennale molto politica, antagonista e questo non può che far bene nello stimolare un dibattito allargato. Probabilmente ne usciamo senza risposte, ma sarebbe già tanto se una volta tornati a casa, la coscienza che accompagna il nostro inquieto presente si fosse un poco increspata.

L’autore è direttore di ilgiornaledellarchitettura.com

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Luca Gibello, 14 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

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