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Torinesi in Giappone, giapponesi a Torino

Torino che tanti, da Soldati a Mila, definirono la città più provinciale e insieme la più europea d’Italia, ancora oggi, seppur soffocata da troppi conservatori, ha saputo comunque, dall’Arte povera a Sperone, continuare a esprimere esperienze contemporanee di livello internazionale. Per celebrare i 150 anni di rapporti ufficiali tra Italia e Giappone (il primo trattato di amicizia e commercio tra i due Paesi fu stipulato il 25 agosto del 1866), a Torino il compito è stato affidato al Mao, dove si sono svolti corsi sulla carta washi, di ikebana, di vestizione del kimono, di cucina e di fotografia.

Nessuno ha però pensato che nel 1876, quando venne fondata a Tokyo la Scuola d’Arte Kôbu, il primo centro creato dallo Stato giapponese per l’insegnamento delle arti in stile europeo, vollero tre italiani a insegnarvi: il pittore Antonio Fontanesi, lo scultore Vincenzo Ragusa e l’architetto Giovanni Vincenzo Cappelletti. Dovrebbe esser cosa nota e risaputa, perché nel 1976 il centenario di fondazione di quell’istituto (poi Accademia Imperiale) fu ricordato con due importanti mostre a Tokyo e Kyoto, organizzate con grande ufficialità. 

Le rassegne dimostrarono la duratura influenza dell’insegnamento di Fontanesi sui suoi allievi giapponesi e le conseguenze per la locale cultura artistica. Sono passati solo quarant’anni. Si poteva rievocare la stagione avviata nel 1959 quando, grazie all’attivismo del critico Michel Tapié de Céleyran, furono a Torino non solo il maestro Sofu Teshigahara (1900-79), ma anche molti componenti del Gruppo Gutai, capitanati da Jiro Yoshihara (1902-72), fondatore di un movimento artistico ancor oggi notissimo e apprezzato dalla critica e dal mercato. Si potevano magari riproporre gli artisti torinesi che allora esposero e soggiornarono in Giappone come Franco Garelli, Franco Assetto e tanti altri. In Galleria d’Arte Moderna, qualcuno che conosca la materia c’è di sicuro e, visto che fanno parte della medesima Fondazione Torino Musei, ci si poteva aspettare una sinergia virtuosa. 

Persino per l’arte dell’Ottocento, che pure il grande pubblico apprezza e si illude di capire, non si riescono a fare passi avanti. A 150 anni dalle battaglie dei migliori artisti di allora, che avevano visione nazionale e internazionale, ancor oggi lo si considera un fenomeno regionale complice la miopia e l’ignoranza di molti collezionisti, mercanti e studiosi. Nella mostra «Carlo Pittara e la Scuola di Rivara» (dizione-slogan di Marziano Bernardi, 1937), che presenta alla Fondazione Ometto-Accorsi sino al 15 gennaio dipinti di grande qualità raccolti perlopiù da Giuliana Godio, il curatore Giuseppe Luigi Marini ripropone dopo oltre otto decenni il pensiero di Bernardi, ma non i giudizi critici di Lionello Venturi, Roberto Longhi, Corrado Maltese, Luigi Mallé e Sandra Pinto.

Marini, il quale a ragione rimprovera (p. 40) Emilio Zanzi per aver inserito nel 1939, in una mostra sul medesimo tema, «otto lavori di Eugenio Gays, tirato per i capelli nel gruppo storico dei rivariani», espone opere di Giovanni Battista Carpanetto (1863-1928) e di Francesco Romero (1840-1905). Carpanetto, anche per mere ragioni anagrafiche, non fu un rivariano seppure a Rivara dipinse per fatti suoi. Quanto a Romero, non ebbe il minimo contatto con i rivariani nei tempi «giusti»: dunque, perché inserirlo in mostra con due dipinti, sì di soggetto rivariano, ma del 1896 e del 1897?

Redazione GDA, 12 novembre 2016 | © Riproduzione riservata

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