La Fondazione Marconi inaugura la programmazione del 2019 con la mostra «Emilio Tadini 1967-1972» (dal 28 marzo a fine giugno). A Tadini (Milano, 1927-2002), esponente della prima «pattuglia» di artisti dello Studio Marconi, la Fondazione aveva dedicato due recenti rassegne, nel 2007 e nel 2012, focalizzate sui lavori del 1960-85 e del 1985-97.
Nella mostra attuale si arretra ai primi anni della collaborazione tra Giorgio Marconi e questo artista di grande e raffinata cultura, che sin dal dopoguerra fu uno degli intellettuali italiani più incisivi. Pittore e disegnatore, critico e teorico, scrittore e poeta, fu proprio con la parola scritta che Tadini esordì, nel 1947 (sulle colonne de «Il Politecnico» di Elio Vittorini, per scrivere poi anche saggi e romanzi), ma già nel 1961 esponeva i suoi dipinti nella blasonata Galleria del Cavallino di Venezia poi, dal 1965, nello Studio Marconi.
La mostra si apre con il suo primo ciclo, «Vita di Voltaire», e si chiude con «Archeologia». Da grande narratore qual era, Tadini amava infatti sviluppare per cicli il suo ricchissimo immaginario, in cui ci s’imbatte in elementi letterari e onirici e in personaggi e oggetti quotidiani trasportati in una dimensione metafisica, in cui spazio, tempo e gravità sembrano ritrarsi per lasciare spazio a una sorta di surrealtà, che nei primi anni ’70 si colorerà dei modi della Pop art (specie di quella britannica, più riflessiva, politica e critica di quella americana).
Dopo Voltaire, è la volta delle serie «Color & Co.», 1969, «Circuito chiuso», 1970, «Viaggio in Italia», 1971, e «Paesaggio di Malevič» e «Archeologia», del 1972 entrambe: tutte scaturite da un flusso mentale di libere associazioni che, spiegava lui, nascono «in qualche zona semibuia della coscienza» per muoversi in un’atmosfera onirica e allucinata.
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