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Serenamente malinconico

Federico Castelli Gattinara

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Una retrospettiva di Jean-Pierre Velly all’Istituto Centrale per la Grafica

Nella dialettica tra l’ombra e la luce c’è tutta l’essenza di Jean-Pierre Velly, artista bretone vincitore del Gran Prix de Rome per l’incisione, che nella Villa Medici guidata da Balthus vive dal 1967 per tre anni, trasferendosi poi a Formello per i successivi venti, dove muore a soli 47 anni (1990) inghiottito dal lago di Bracciano durante un’escursione in barca.

Fino al 15 maggio, a un quarto di secolo dalla sua scomparsa l’Istituto Centrale per la Grafica, in una mostra organizzata dall’Accademia di Belle Arti di Roma, ne ricostruisce la figura. La rassegna è curata da Pier Luigi Berto, Ginevra Mariani e Marco Nocca, che firmano i testi in catalogo (edizioni L’Erma di Bretschneider) introdotto da Maria Antonella Fusco, dirigente dell’Istituto Centrale per la Grafica, e Tiziana d’Acchille, direttrice dell’Accademia di Belle Arti di Roma, e integrato da una testimonianza di Vittorio Sgarbi (grande estimatore di Velly) e da testi di Marco Di Capua, Pierre Higonnet, Gabriele Simongini, Catherine Velly, Vinicio Prizia, con scede di Giovanna Scaloni.

A Palazzo Poli «Jean-Pierre Velly. L’Ombra e la Luce» torna su un artista quasi dimenticato, un pittore, incisore, acquarellista di straordinaria  perizia (ma negli anni Settanta l’utilizzo di tecniche tradizionali non aiutava certo ad affermarsi), molto amato e stimato da critici, scrittori e poeti. La scansione tematica scelta è quella della metafora alchemica, non a caso la mostra si apre con la celebre incisione «Melencolia I» di Albrecht Dürer, capolavoro del 1514 ricco di simboli alchemici e rimandi esoterici. Un immaginario nordico e la sua continua osmosi con l’equilibrio classico, tipico dell’opera düreriana, caratterizza del resto il percorso di questo artista: «La strada di Velly, da Dürer e Bosch a se stesso, scriveva Moravia, è anche la strada che dalla invenzione dei mostri e delle catastrofi l’ha portato alla contemplazione dei fiori e delle piante adoperate come metafora proprio di quei mostri e di quelle catastrofi». Ma i riferimenti storici intrecciano vari autori: in un foglio premonitore come «La strage degli innocenti», spaventosa e apocalittica distesa di corpi in lotta,  si affacciano sia Brueghel («Il trionfo della Morte») sia Ensor.

Tra gli ultimi praticanti dell’incisione a bulino secondo i canoni classici dell’incisione «in taglio dolce», Velly in effetti, nell’opera grafica, scatena un universo popolato da creature grottesche, da grovigli di figure, edifici e frammenti meccanici, ma, nel contempo, dà vita a complesse composizioni che rimandano al filone più colto dell’incisione cinquecentesca, laddove matrice e foglio si fanno portatori di allegorie e iconografie inconsuete e misteriose (si pensi alla straordinaria incisione di Giorgio Ghisi nota come «Il sogno di Raffaello»).

In mostra, nella prima sala intitolata alla «Nigredo», si parte dai notissimi autoritratti «così severi, ma anche desiderosi di guardarsi nello specchio della pittura» (Giorgio Soavi), dal serrato confronto tra disegni preparatori inediti e prove di stato, dalle visioni oniriche incise a bulino a illustrare quel «percorso dal sentimento alla materia che fermenta e cova nella notte, e viceversa» (Marisa Volpi); si passa poi, nella sala dell’«Albedo», agli acquerelli (tecnica cara a Dürer, che attraverso di essa, al pari di Velly, ha dedicato fogli memorabile alla natura e al paesaggio), ai disegni a punta d’argento. Il percorso si conclude con la pittura, disciplina cui Velly si dedica con più continuità dal 1976. Sono opere più serene, seppure, nei paesaggi soprattutto, venate da quella malinconia che sempre sarà compagna dell’artista: «Con i colori mi piace poter raccontare che nulla è grave, che un giorno morirò ma l’umanità continuerà».  

Federico Castelli Gattinara, 10 aprile 2016 | © Riproduzione riservata

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