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Silvano Manganaro
Leggi i suoi articoliSe il fantasma è ciò che appare ma non è reale, allora potremmo paradossalmente considerarlo una chiave per guardare all’arte in modo diverso: il fantasma come intuizione oppure come immagine di qualcosa che proviene da una dimensiona altra.
Più semplicemente, nella collettiva ospitata da Francesca Antonini dal 21 febbraio al 4 maggio, «Phantasma» è il pretesto per mettere in dialogo sei artisti: tre abitualmente rappresentati dalla galleria e tre «ospiti». Non c’è univocità di tecniche ma commistione tra fotografia, pittura, performance e istallazione. La suggestione che ha ispirato l’organizzazione della mostra risale alla visione di un’opera di Myriam Laplante del 1997 dal titolo «Autoportrait» (parte di un ciclo di lavori presenti anche alla Quadriennale dell’anno precedente): una fotografia spiritica in bianco e nero ambientata in un interno borghese di fine Ottocento-inizio Novecento.
Un’ambientazione che per certi versi rimandava ai quadri di Gioacchino Pontrelli, artista di punta della galleria romana. Da lì l’idea di creare dei dialoghi «in tema»: Pontrelli-Laplante, Carocci-Scarabello, Castelli-Dévereux. Accoppiamenti giudiziosi che nascono da un dialogo vero, da interazioni autentiche tra artisti che, in alcuni casi, hanno realizzato delle opere appositamente per la mostra.
E così la pittura liquida di Guglielmo Castelli viene accostata ai lightbox del panamense Nick Dévereux, così come le fotografie analogiche in bianco e nero di Monica Carocci dialogano con degli insoliti grafiti su carta di Alessandro Scarabello. Una collettiva come una fantasmagoria che lavora su un binomio non solo di artisti ma anche di concetti quali presenza/assenza, visione/apparizione, presente/passato, realtà/ricordo.

«Autoportrait» (1997) di Myriam Laplante (particolare)
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