La retrospettiva «Jean Dubuffet» della Fondation Pierre Gianadda, presentata dal 3 dicembre al 6 giugno, in collaborazione con il Musée National d’Art moderne del Centre Pompidou di Parigi, propone una rilettura dell’opera del padre dell’Art brut, che non smise mai di reinventarsi.
Anticonformista per eccellenza, Dubuffet (1901-85), rifiutò la cultura dominante per difendere il «non sapere» all’origine di un’arte nuova, autodidatta, emancipata dalle scuole di pensiero. Nel 1945 teorizzò il concetto di Art brut, attratto dal carattere spontaneo dei lavori degli emarginati, dei malati mentali, dei detenuti.
Opere che collezionò per tutta la vita (ne riunì più di 5mila), che furono per lui fonte di ispirazione e di cui fece poi dono alla città di Losanna. Nel 1947, insieme ad André Breton, fondò la «Compagnie de l’Art brut», definendo così l’attività creativa degli «artisti loro malgrado», che creano cioè senza intenzioni artistiche.
La mostra di Martigny, curata da Sophie Duplaix, conservatrice al Centre Pompidou, traccia lungo un percorso cronologico le tappe chiave della carriera del prolifico artista. I primi lavori, dal 1942, sono ispirati ai disegni infantili.
La serie «Corps de Dames» (1950), popolata da personaggi grotteschi, è uno degli esempi maggiori di come Dubuffet riuscì a liberarsi da ogni condizionamento stilistico nell’uso del colore e dei materiali. La pittura diventa il tema centrale dell’opera.
Le ricerche sulla materia, i supporti, i formati, caratterizzano i lavori successivi, come nella serie «Matériologies», con la maestosa «Messe de Terre» (1959-60). Nel 1962 iniziò il vasto ciclo «L’Hourloupe» (oli, disegni, sculture, architetture), che lo occupò per dodici anni, fino all’elaborazione di un’opera d’arte totale come «Coucou Bazar».
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