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Ricordate di dimenticarci

Federico Castelli Gattinara

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Dal 30 aprile al 20 settembre la mostra «Good Luck» («buona fortuna») di Lara Favaretto (Treviso, 1973) espone al MaXXI il progetto commissionatole quattro anni fa dal museo romano. Vincitrice del premio per la Giovane arte italiana alla Biennale di Venezia del 2004, la Favaretto tornava in Laguna nel 2009 con «Momentary Monument I (The Swamp)», un’opera dedicata al tema degli «scomparsi», ovvero persone che, volontariamente o no, si sono ritirate dalla vita pubblica, facendo perdere le loro tracce: si va dagli scrittori Bierce, Lovecraft e Salinger a László Tóth, l’uomo che nel 1972 vandalizzò a colpi di martello la «Pietà» di Michelangelo in San Pietro; dal fisico Ettore Majorana all’ingegnere Nikola Tesla. «Good Luck» si pone come la prosecuzione di quell’installazione.
Lara Favaretto, qual è il filo che lega i due lavori?
«The Swamp» è il primo dei miei «Momentary Monument», lavori visibili per un tempo determinato, anche se con un reale impatto monumentale, e poi distrutti e mai più ripetuti. Gli sopravvive però sempre un oggetto, con un valore di reliquia. Nel caso di Venezia è una lama d’ottone, che posta nella palude restituiva un riflesso dorato e che poi è diventata ironicamente un battiscopa. Mi piaceva l’idea di creare un «cimitero degli scomparsi», che non può esistere, per di più in una situazione in cui era impossibile verificare se fosse stato realmente realizzato.
E poi?
Successivamente ho prodotto un libro d’artista in cui ho raccolto alcuni estratti sulle vicende dei venti «scomparsi» per evidenziare i motivi della loro selezione. Dal libro è nata l’idea di fare i cenotafi, che avranno tutti una collocazione in luoghi arbitrari, cioè dove qualcuno deciderà di costruirli per ricordare una di queste persone. L’obiettivo finale di questa serie è creare una nuova mappatura, svincolata dai luoghi di provenienza degli scomparsi, in cui chiunque potrà ricordare, per esempio, lo scacchista Bobby Fischer, in un dato posto, museo, collezione, perché lì qualcuno ha deciso di custodire quel lavoro.
Il filo conduttore è quello della memoria?
No, la memoria, l’andarsene, l’abbandono, per me sono diventate parole abusate e retoriche. Non è il fatto in sé che mi interessa, anche perché ognuna di queste venti persone scompare in modo diverso. A volte non scompaiono affatto, o lo fanno in modo lento, o per un breve periodo. Lo scrittore Thomas Pynchon, per esempio, semplicemente non è mai apparso.
Venti persone, ma i cenotafi in mostra sono solo diciotto...
Quelli in ricordo dell’economista Federico Caffè e dell’ingegner Thomas Hadwin non ci sono perché sono già stati collocati, il primo a Milano, il secondo in una collezione di Los Angeles.
Sono personaggi che spesso hanno storie incredibili...
Sì. Bruno Manser, ad esempio, è un antropologo scomparso in Malesia: si è avvicinato talmente tanto alla civiltà dei Penan, quasi estinta, che non si capisce se sia stato lui stesso ad annullarsi in essa oppure se siano stati loro in qualche modo a inghiottirlo. Il MaXXI contiene un cimitero, anche molto preciso, lineare.
Che forma hanno i cenotafi?
Sono forme elementari, volumi regolari, semplici, ognuno diverso dall’altro. Non mi interessa il colore, la forma, ma quello che il lavoro, concettualmente, rappresenta attraverso gli elementi che lo costituiscono: legno, ottone e terra. All’interno di ogni cenotafio, a volte visibile a volte no, c’è una scatola di ferro con dentro oggetti vari, che conosciamo solo io e il fabbro che le ha sigillate. Oggetti che raccontano la storia o sono stati di proprietà della persona a cui il cenotafio è dedicato. Essendo sempre a contatto con la terra, il ferro della scatola inizia un lentissimo processo di corrosione che porterà forse un giorno a rivelare gli oggetti contenuti. Oltre ai cenotafi, la mostra prevede la pubblicazione di un libro ideato da me. Per esempio ho coinvolto un avvocato che esamina il diritto all’oblio, le cause intentate a Google per l’impossibilità di uscire dalla rete. Per questo non parlerei di memoria, ma più del sogno molto contemporaneo di togliersi da qualsiasi tipo di dimensione.
Perché il titolo «Good Luck»?
È una battuta, beati loro che se ne sono andati! È un po’ un desiderio del XXI secolo, il fatto di scomparire e l’impossibilità di farlo.
 


Federico Castelli Gattinara, 31 marzo 2015 | © Riproduzione riservata

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