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Veduta dell’installazione della mostra «Player Character» di Jon Rafman presso Basement Roma. Cortesia dell’artista e di Sprüth Magers. Foto Roberto Apa. © Jon Rafman

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Veduta dell’installazione della mostra «Player Character» di Jon Rafman presso Basement Roma. Cortesia dell’artista e di Sprüth Magers. Foto Roberto Apa. © Jon Rafman

Rafman e la rete come dimensione inconscia del reale

La nuova mostra dell’artista canadese negli spazi di Basement Roma trasforma lo spettatore in un «personaggio giocante» di un videogame

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Redazione GDA

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Acuto conoscitore del web e delle sue zone più nascoste, Jon Rafman (Montréal, Canada, 1981) indaga le culture e sottoculture digitali, sedotto dal potere della rete di creare possibilità infinite e di eludere i confini tra la realtà e la sua rappresentazione virtuale. Fin dai suoi esordi, l’artista canadese oggi di base a Los Angeles, ha esplorato gli effetti dell’uso della tecnologia sulla percezione del reale. Con lo sguardo disincantato dell’antropologo e dell’entusiasta flâneur digitale, realizza lavori che vanno dal film e il videogioco all’installazione e la fotografia, che spesso attivano una mise-en-abyme di stati allucinatori e manipolazioni immaginifiche.

È proprio sulla percezione che Rafman interviene, fino al 23 maggio, negli spazi di Basement a Roma, stravolti da sinuose pareti nere che trascinano chi varca l’ingresso del seminterrato in un ambiente buio, puntellato di suoni e immagini che hanno più a che fare con il mondo onirico rispetto a quello cosciente. «Player Character», il «personaggio giocante» di un videogame, è un paesaggio senza regole né memoria, intrappolato in un eterno presente claustrofobico, ma anche un portale verso universi paralleli, proiezione tridimensionale dell’orizzontalità della rete. Se l’antesignana del cyberpunk, la «Metropolis» di Fritz Lang aspirava a una ricongiunzione ideale tra città di sotto e di sopra, la realtà di Rafman supera la distinzione stessa in una distopia che fagocita angeli e demoni, continuamente sull’orlo del tracollo.
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La mostra, curata da Cura., è una sorta di retrospettiva condensata della produzione degli ultimi vent’anni dell’artista, che include lavori inediti e di lunga data presentati per la prima volta al pubblico. Un’esperienza immersiva nella quale il visitatore, camminando attraverso la stretta feritoia, realizzata dallo studio BB (Fabrizio Ballabio, Alessandro Bava) e che altera le coordinate spazio-temporali del luogo, si trova catapultato nel ruolo del personaggio giocante; deve fare delle scelte che influenzeranno il suo percorso di visita, quasi a ricordare la Bandersnatch di Black Mirror dalle innumerevoli probabilità di gioco, tutte accomunate da una seria inquietudine. I limiti dello spazio sono individuati dalle gigantografie, allestite alle pareti laterali, dei personaggi di «SS Laguna (prologo)» (2024), il videogioco di Rafman presentato in anteprima in Italia. Nella surreale cisterna in cui si raccolgono e sovrappongono canti, gemiti bestiali, suoni elettronici, orrore e magia, come guardiani di un altro mondo sorvegliano il giocatore. In contrapposizione alla scala di questi ultimi, relegato a uno spazio ridimensionato, più intima e privata è la postazione in cui poter interagire con il videogioco, a evidenziare la dimensione non plateale in cui prende vita l’immaginazione.

Sul lato sinistro, due strutture confessionali ospitano «Egregores I, II, III, IV» (2024), un archivio di immagini che sembrano generate le une dalle altre, interamente realizzate dall’intelligenza artificiale. Ci si inginocchia per osservare da vicino corpi umani invecchiare improvvisamente, animali fantastici o entità non riconducibili ad alcun riscontro empirico. Il termine «eggregora» coniato nell’alveo dell’occultismo, indica una forma-pensiero che si manifesta come emanazione di un ampio gruppo di persone che condividono un contesto culturale comune. L’installazione dialoga con le intonazioni di «Musique Pour le Chevalier Aux Fleurs (Classic)», un nuovo album in cui un algoritmo ha reinterpretato alcune delle musiche più care a Rafman. Nell’intercettare canti gregoriani e visioni mostruose, il rapporto tra inferno e redenzione abita lo spazio di Internet, dove, nel commento dell’artista, si incontrano «le cose più belle e quelle più orribili, e quello che ci provocano»

Nell’area destra dello spazio, il «Cinema Rafman» accoglie i film realizzati dall’artista dai primi anni 2000 a oggi, programmati a cicli. Ciò di cui si occupa Rafman è l’io collettivo, del quale sonda angosce e desideri a partire dalle frenetiche stimolazioni e mutazioni del presente. La sua stessa filmografia ripercorre la storia di due decenni, da «Advice for a Prophet» (2004), nel quale compaiono diversi estratti di pubblicità televisive, e «City Girls» (2005), in cui esplora il senso di dèjà vu nell’incontro casuale; da «Dream Journal» (2016-19), un viaggio in una serie di sogni dell’artista che si apre con il voice over «All I want is a dream where to sleep», a «Minor Demon, Vol.1» (2022), che segue i destini di due giovani uomini di estrazioni sociali diverse e legati da un formidabile talento per il gaming.
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Il senso di perdita e morte delle narrazioni computerizzate provoca un rifiuto e l’istintiva reazione ad allontanarsi e scappare da quelle immagini, per poi realizzare che, lontano dall’essere distopia, il presente è tutto là. D’altronde l’eccitazione dell’esplorazione virtuale compare anche nell’interesse per la presenza neutrale e invisibile della macchina. Per la prima volta presentata in forma espositiva, «Nine Eyes» (2008-in corso) è una collezione infinita di immagini catturate in maniera implacabile e fortuita dai nove obiettivi di Google Street View in tutto il pianeta, da cui Rafman ha estratto le più stravaganti. Per l’artista, il mondo colto dalla macchina risulta più veritiero e trasparente in virtù del peso che viene accordato alla realtà esterna. Un ribaltamento dell’idea di vero nell’epoca della postverità, laddove la dimensione pubblica e privata si uniscono in una specie di teatro dell’assurdo.

Tra disorientamento e divertimento, in ultima analisi il personaggio che si muove nel gioco può essere visto come un involucro dentro al quale riconoscersi come parte di un apparato ambiguo e misterioso. Assomiglia alla condizione umana che ignora chi sia il giocatore dall’altra parte a muoverne le fila. Nell’oscurità della sala pochi noteranno un indizio: l’incisione sulle porte di legno dei due confessionali di un simpatico personaggio monocolo che ha la forma di una brocca e i quattro arti umani. È Kool-Aid Man, l’avatar con cui Rafman ha navigato Second Life dal 2008 al 2011. Lo stesso che confessava a Nicholas O’Brien che non c’è modo di fuggire dal «mostro centralizzato» dell’autorità così ambigua, oscura e senza nome. Eppure, mentre tutto sembra perduto da parte delle generazioni attuali, che non hanno molti punti di riferimento a cui aggrapparsi, Kool-Aid Man si intrufola allegro nello spazio misterico dell’incubo. Inutile ignorarla, la città di sotto, dove l’individuo ha relegato paure e pulsioni più abiette, spingerà sempre per emergere. «Player Character», come disse di Roma Philip Dick, forse è la realtà latente del nostro mondo attuale.
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Redazione GDA, 27 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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