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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliÈ stato un grande pittore, Cy Twombly, uno dei più celebri fra gli «americani a Roma», a dire che la città, negli anni Cinquanta e Sessanta, «era un paradiso». Se New York aveva sostituito il ruolo di capitale delle avanguardie per tanti anni ricoperto da Parigi, Roma riusciva, in quel periodo di rinascita economica e culturale, a riunire in sé l’effervescenza creativa e intellettuale di entrambe mantenendo però intatta, forse per l’ultima volta nella storia, quella sua identità così com’era andata configurandosi tra Cinquecento e Seicento, a un tempo snob e popolana, raffinata e cialtrona, splendida e miserabile, innovativa pur nel suo ineludibile radicamento nell’Antico.
Testimone dell’epoca è Stefano Malatesta, giornalista e scrittore. Cosmopolita da sempre, la Roma che si spalancava sotto i suoi occhi di adolescente lo fu ulteriormente con l’irruzione del cinema e con l’arrivo di registi, attori e scrittori americani, primo fra tutti Orson Welles, mentre nella capitale erano già residenti Gore Vidal, Tennessee Williams e Truman Capote. Lo sbarco yankee in massa si deve però alla lavorazione, a Cinecittà, del colossal «Quo Vadis», nel 1950.
Da allora in poi, per un certo periodo, non fu più casuale incontrare in via Condotti Clark Gable, Ava Gardner e Cary Grant intenti allo shopping. E gli italiani, i romani indigeni e adottivi? Era la Roma di Moravia e Flaiano, di Gadda e Pasolini, ma anche di una variegata fauna di faccendieri, falsari, scrittori, poeti, mercanti e soprattutto di artisti che rinverdivano il mito della bohème anche nel suo versante maudit: è il caso di Franco Angeli e di Tano Festa, o dello stesso Mario Schifano detto il Puma (indimenticabile, tra l’altro, il suo film girato nella casa del poeta Sandro Penna).
Di questa talentuosa umanità Malatesta offre una vivace galleria di ritratti: ecco Pico Cellini, straordinario restauratore ma anche scopritore di tesori («La negazione di san Pietro» di Caravaggio) e di patacche, quelle che non meno abili facitori di bronzi etruschi, marmi romani e oli barocchi rifilavano ai miliardari americani, in un mercato all’epoca battuto dai Rockefeller, dai Lehman, dai Mellon, dai Morgan e dai Frick; fu lo stesso Cellini, «consulente» di Federico Zeri, a smascherare come opera dei Riccardi, dinastia di grandi falsari, i «guerrieri etruschi, due mammozzoni che erano un castigo di Dio», esibiti in pompa magna dal Metropolitan Museum. I disegni antichi erano invece la specialità di un contraffattore reo confesso come Eric Hebborn, e chissà se le cause della sua tragica scomparsa non vadano ricercate in certo sottobosco antiquariale.
La narrazione di Malatesta è un amarcord non privo di episodi grotteschi ed esilaranti, come il misterioso furto del prepuzio di Gesù Bambino, reliquia dei Musei Vaticani, di dissacranti appunti ai quali non scampano né il venerato Berenson («l’esempio più classico di come si può turlupinare una massa imponente di studiosi, accademici, giornalisti, scrittori e dare di sé un’immagine esattamente contraria alla realtà»), foraggiato da Lord Duveen che vendeva in America dipinti altrimenti invendibili grazie all’avallo dell’autorevole connoisseur in calce a certe expertise, né Longhi, prodigo di attribuzioni proporzionalmente alle sue disfatte al tavolo da gioco. Alla commedia si alterna la leggenda, o se si vuole l’epica, di personaggi come il collezionista d’arte contemporanea Giorgio Franchetti, cognato dello stesso Twombly e sodale di Plinio De Martiis, il gallerista che portò a Roma Rothko, De Kooning e Rauschenberg (quest’ultimo folgorato, ma in tal senso non ricambiato, da Burri) e organizzatore dell’incontro tra le due anime del dadaismo, Tzara e Duchamp.
Il libro, purtroppo, è privo di immagini. Ma di sicuro ci sarebbe stata bene, in chiusura, una fotografia del 1972 di Claudio Abate che riassume malinconicamente quel clima irripetibile: un de Chirico pensoso incede in primo piano, mentre alle sue spalle lo osserva divertito un più che mai dandy Gino De Dominicis, forse il suo più degno successore nella prosecuzione di quell’incanto, sia pure per pochi anni ancora: «La Roma di oggi, scrive Malatesta, sembra così lontana da quella di ieri, così diversa da far pensare che quella che abbiamo conosciuto (...) era una Roma inventata».
Quando Roma era un paradiso
di Stefano Malatesta
138 pp.
Skira, Milano 2015
€ 15,00
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