«Carceri d’invenzione, tavola VII» (1761), di Giovanni Battista Piranesi

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«Carceri d’invenzione, tavola VII» (1761), di Giovanni Battista Piranesi

Piranesi come Jules Verne

A Oslo le molteplici influenze sul presente di un artista «trasversale» capace, scrisse Louis Kahn, di «immaginare cose che poi si sarebbero rivelate non così fantastiche»

L’ombra lunga di Giovanni Battista Piranesi (Venezia 1720-Roma 1778) si estende sul presente e sul futuro. Le molte diramazioni dell’influenza esercitata nel XX e XXI secolo dall’incisore, architetto, antiquario, designer, archeologo e trattatista sono il tema della mostra «Piranesi e il Moderno», da poco aperta al Nasjonalmuseet di Oslo e allestita sino all’8 gennaio 2023.

È una rassegna che, curata da Victor Plathe Tschudi, docente alla Scuola di Architettura e Design della capitale norvegese (AHO) e da Wenche Volle, senior curator al Nasjonalmuseet, somiglia essa stessa a un’incisione piranesiana per la sua capacità di irradiare un fascino visionario su più livelli percettivi e culturali.

Il visitatore si cala gradualmente in profondità nelle quali gli specialisti che hanno lavorato a questa esposizione fanno luce sulla complessità del mondo piranesiano. Anche in questo caso è la serie più celebre di acqueforti di Piranesi, le «Carceri», opera del 1749-50 su cui l’autore ritornò con non lievi modifiche, elevandone la tonalità drammatica, a distanza di più di un decennio dalla prima edizione, a offrire una molteplicità di collegamenti con le avanguardie del ’900.

A quel Piranesi guarda il cinema (Sergej Eizenstein, Fritz Lang). In quello spazio labirintico, nei due stati delle «Carceri», Victor Plathe Tschudi vede la compresenza di Cubismo e Surrealismo. A quelle scale protese nel vuoto, a quegli ansiogeni corridoi ma anche ai loro abitatori pensa anche un’artista d’oggi, Julie Mehretu, presente con le sue «mappe» intricate come molteplici ragnatele sovrapposte.

Nelle «Carceri» carnefici e torturati sembrano destinati a una medesima, kafkiana, complice condanna; ma la stessa ambiguità è presente nella visione piranesiana della città antica e moderna: «Piranesi, dichiara l’artista di origine etiope, si trova a suo agio nella contraddizione: essere in soggezione della storia e di ciò che abbiamo costruito, ma anche critico nei confronti del potere e della schiavitù impliciti nell’idea di città. Ecco allora le prigioni come città, come cattedrali, labirinti dell'impossibile, non della liberazione ma delle rovine del passato, fetide di torture e brutalità».

Le opere di Julie Mehretu conducono al cuore della mostra, costituito dalle stampe e dalle matrici de «Il Campo Marzio dell’Antica Roma» (1762). Sarebbe riduttivo definire alla stregua di una mera ricostruzione quell’imponente e ambiziosa opera dedicata alla zona che l’incisore veneziano considerava il Campo Marzio, cioè un'area racchiusa dalle anse del Tevere e delimitata dal Campidoglio a sud e da Ponte Milvio a nord.

Come spiega Tschudi, infatti, «Piranesi era ben consapevole che la sua rappresentazione degli antichi complessi edilizi andava ben al di là di ciò che era documentato e persino di ciò che era possibile. In “Campo Marzio”, la città antica trionfava come avrebbe potuto trionfare se il Medioevo, il Rinascimento e il Barocco non avessero interferito e mandato fuori rotta l'evoluzione della città. Piranesi raccolse il testimone dagli antichi Romani e continuò la loro opera. In altre parole, ha preso il suo punto di vista nel passato e ha mostrato la città come avrebbe potuto essere in un futuro immaginario. L'idea che la mappa evochi una città che non era ancora stata costruita, piuttosto che una città sepolta nel sottosuolo, sposta il punto di partenza dall’archeologia all’architettura. In questo modo, Piranesi stabilisce un’importante punto di riferimento: il suoCampo Marzio” è diventato una guida per architetti come Louis Kahn e Rem Koolhaas».

E persino Le Corbusier. Se l’accento su Piranesi urbanista non può che essere fortemente marcato in una mostra ospitata a Oslo, una delle capitali dell’architettura moderna e contemporanea, non meno rilevante è la scena occupata dall’incisore. La presenza delle matrici del «Campo Marzio» è in effetti uno dei punti salienti del percorso.

Giovanna Scaloni, studiosa dell’Istituto Centrale per la Grafica di Roma (prestatore delle matrici esposte) coinvolta in quell’imponente cantiere di recupero, restauro e studio dei rami piranesiani avviato da Ginevra Mariani (ne sono scaturiti, per ora, quattro preziosi volumi), non esita a dichiarare nel suo saggio in catalogo che «dalle lastre di rame, più che dalle stampe, si può ricostruire la lenta evoluzione del processo che sta alla base delle composizioni. Nei suoi studi instancabili del Campo Marzio, Piranesi continuò a correggere e migliorare le lastre e le tavole e a provare diverse soluzioni, fino all'ultimo momento prima di consegnarle per la stampa».

Correzioni, cancellazioni, integrazioni e modifiche a forza di raschietto e brunitoio, e poi di successive nuove incerature, nuovi segni, nuove morsure. «Queste cancellature, continua Scaloni, corrispondono a nuove conoscenze acquisite da Piranesi e già documentate in altre opere». E, talora, la sorpresa si manifesta nel retro delle matrici: «Il verso della lastra VII è interessante a questo proposito. Qui troviamo immagini architettoniche che sono state aggiunte alla lastra dopo che il recto era stato inciso. Le immagini sul verso sono eseguite a puntasecca, quindi non sottoposte a morsura, e raffigurano frontoni dei templi (con architravi, metope, triglifi, guttae e mutuli). (…) Gli elementi architettonici che sono comparsi sul verso di alcune lastre di rame recentemente restaurate si riferivano non solo ai grandiosi edifici antichi che venivano gradualmente rivelati nei siti di scavo a Roma, ma anche all’architettura moderna pubblicata in trattati illustrati del XVI e XVII secolo, che certamente circolavano nelle botteghe di Piranesi».

La studiosa ribadisce in questa occasione quanto la letteratura scientifica su Piranesi ha rivelato, cioè «le strette connessioni tra i moduli della mappa di Campo Marzio e i disegni di Giovanni Battista Montano (1534-1621), che vennero pubblicati per la prima volta dall'allievo di Montano, Giovanni Battista Soria (1581-1651). Le piante sul verso di cinque matrici delle “Antichità Romane” corrispondono esattamente alle incisioni del trattato di Montano. Nel "laboratorio piranesiano", i templi di Montano erano visti come ipotetiche ricostruzioni di edifici che avevano fatto parte del paesaggio dell'antica Roma.  Queste incisioni sul verso delle matrici erano con ogni probabilità la prima fase degli schizzi preparatori per l’“Ichnographia” - la mappa di Campo Marzio cui Piranesi stava lavorando nello stesso periodo».

Il nome di Montano come ispiratore di Piranesi si affianca così a quello, più celebre, di Francesco Borromini. Affiora, ancora una volta, uno degli aspetti più affascinanti della mente piranesiana, ovvero l’identificazione della «storia più recente come fonte per generare immagini del passato antico». E viceversa. Un architetto moderno come Louis Kahn disse di lui a proposito del «Campo Marzio»: «Come Jules Verne, immaginava cose che poi si sono rivelate non del tutto fantastiche». Ma questa mostra di Oslo propone un nuovo, e molto piranesiano, gioco di specchi. Scrive Tschudi: «Possiamo invertire questo commento e dire che l'architettura di Piranesi non appariva più fantastica perché Kahn, tra gli altri, l'aveva resa reale».

«Carceri d’invenzione, tavola VII» (1761), di Giovanni Battista Piranesi

«Campo Marzio (1762) di Giovanni Battista Piranesi. Copyright: Giovanni Battista Piranesi / British School at Rome, Library and Archive Collections

«Citadel» (2005), di Julie Mehretu. Copyright: Julie Mehretu / Fundació Sorigué

Franco Fanelli, 30 settembre 2022 | © Riproduzione riservata

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