«Non sono uno di quegli artisti che se ne sta in studio e fa cose nuove. Mi approprio di cose che esistono già e le modifico: non solo oggetti, ma anche sistemi e idee», ha dichiarato in un’intervista Danh Vo (1975). L’artista vietnamita-danese si serve della propria biografia personale come materiale grezzo per opere di carattere universale. A partire dal viaggio in nave dal Vietnam alla Danimarca, che compì con la propria famiglia poco dopo la caduta di Saigon nel 1975: un trauma che Vo ha dissezionato in uno dei suoi lavori più noti, un lampadario (quello dell’Hotel Majestic di Parigi, dove fu firmato il trattato che pose formalmente fine all’intervento militare americano in Vietnam) scomposto in tutte le sue parti, poi ordinatamente disposte su un pavimento.
Dal 9 febbraio al 9 maggio Danh Vo torna al Guggenheim di New York con un’ampia retrospettiva a cura di Katherine Brinson e Susan Thompson («Danh Vo: Take My Breath Away») che riunisce lavori passati e nuove produzioni. Una prima personale si era tenuta nello stesso museo nel 2013, quando l’artista si è aggiudicato l’Hugo Boss Prize. Oltre 100 opere tra installazioni, sculture e fotografie occupano le rampe della rotonda, offrendo spunti di riflessione su varie tematiche, quali colonialismo, religione e capitalismo, attraverso narrazioni intime (le cosiddette «piccolissime diaspore della vita di una persona», nelle parole dell’artista).
L’esposizione, che rinuncia a un ordinamento cronologico per privilegiare accostamenti tematici, riflette l’intero spettro della pratica di Danh Vo: dalle prime opere-azioni come «Vo Rosasco Rasmussen» (2003), in cui l’autore sposa amici e conoscenti per poi divorziare da loro, allo scopo di aggiungere al proprio nome i loro cognomi, sino alle sue più recenti sculture, ibridi di statue classiche e cristiane. C’è un focus speciale sugli Stati Uniti, di cui diverse opere in mostra mirano a scandagliare l’immagine collettiva: prima fra tutte «We the People» (2011), una replica frammentata della Statua della Libertà.
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