Palazzo Reale per Grazia Varisco

Una personale che riconosce il valore dell’artista oltre il Gruppo T, attraversando in senso diacronico tutta la sua produzione, dagli esordi materici del 1947 fino all’ambiguità percettiva degli anni 2000

«Oh» (1996) di Grazia Varisco. Cortesia dell'Archivio Varisco
Ada Masoero |  | Milano

Che Grazia Varisco, non fosse solo la «ragazza del Gruppo T», si era capito da tempo. Capito sì, perché la qualità del suo lavoro s’impone agli occhi di chiunque. Ma non riconosciuto. E capito (ma non riconosciuto) anche perché, dopo quell’esperienza chiusa alla metà degli anni ’60, la sua ricerca si era sempre evoluta e affinata, con esiti rigorosi e sorprendenti al tempo stesso.

Sebbene da qualche tempo ormai i riconoscimenti non le siano mancati, la grande mostra «Grazia Varisco. Percorsi contemporanei 1957-2022», che Palazzo Reale le dedica dal 22 giugno al 16 settembre, ha perciò il sapore di un più che meritato risarcimento per un’artista d’indiscusso valore che, a quasi 85 anni (dichiarati con legittimo orgoglio), conserva la carica umana e la freschezza creativa di quando esordì, nel 1957, nella sua Milano.

La mostra, curata da Marco Meneguzzo, la segue da allora, presentando le opere di segno materico e informale che anche per lei, come per molti della sua generazione, esprimevano i lutti della guerra e, al tempo stesso, rompevano con l’arte di chi li aveva formati (a Brera, era stata allieva di Achille Funi). Una parentesi presto chiusa però, quella dei «Materici» (1957-59), e subito seguita dall’esperienza radicale del Gruppo T (con Anceschi, Boriani, Colombo, De Vecchi; lei unica donna), in cui esordiva con le «Tavole Magnetiche» (1959-62), dove già entravano in gioco i fondamenti della sua ricerca: il rapporto spazio-tempo e il ruolo del caso e del «gioco», tradotti in immagini tanto inattese quanto efficaci.

Così come inattesi erano i materiali cui si affidava negli anni ’60: negli «Schemi luminosi variabili», lavori in movimento presentati alla Biennale di Venezia del 1964 (poi ancora nel 1986 e nell’attuale) si serviva infatti di metacrilato blu, motorini elettrici, luce al neon, per virare poi, fino al 1971, verso il vetro industriale, in opere in cui l’immagine viene, per così dire, pixelata dal materiale. Fra i 150 lavori riuniti nella mostra, figurano quelli della personale che Arturo Schwarz le dedicò nel 1969, qui ricostruita, così come è ricostruito l’ambiente straniante «Dilatazione spaziotemporale di un percorso», presentato nella storica mostra di Luciano Caramel «Campo urbano» (Como, 1969).

In seguito il tema del caso, con le sue anomalie e i suoi imprevisti, acquisirà sempre più spazio, di pari passo con l’ingresso della terza dimensione e, negli anni ’80 e ’90, della grande dimensione, con effetti spiazzanti di distorsione dello spazio. Fino ai lavori del nuovo millennio, giocati anch’essi sull’ambiguità percettiva, culminanti nell’impagabile invenzione dei «Quadri comunicanti» del 2008.

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