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Nella foresta senza bussola

Le ultime ricerche condotte da un gruppo di studiosi americani potrebbero segnare la fine della querelle sul Codex Grolier

Antonio Aimi

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Le conclusioni di questo team, che comprende figure prestigiose come Michael Coe, Mary Miller, Karl Taube e Stephen Houston, sono perentorie: «Una ragionata valutazione dei dati lascia solo una possibilità: ci sono solo quattro codici maya di epoca precolombiana, e uno di questi è il Grolier».

La storia che è possibile documentare con certezza del Grolier cominciò nel 1971, quando il documento fu esposto a New York nella mostra: «The Maya Scribe and His World», organizzata dal club di bibliofili da cui il codice prese poi il nome. Il «libro», che come tutti gli altri codici precolombiani si apre a fisarmonica ed è fatto con sottocorteccia d’albero, proveniva dalla raccolta di Josué Sáenz, un magnate di Città del Messico, che l’aveva acquistato sei anni prima in uno scenario degno di un film di Indiana Jones.

Il collezionista, infatti, riferiva di essere stato contattato da alcuni tombaroli, che gli avevano segnalato che in una «grotta secca» ai piedi della Sierra Madre del Chiapas era stato trovato un tesoro formato da una maschera a mosaico, un coltello di selce, un «libro» e altri oggetti di minore importanza. Incuriosito, Sáenz era andato a Villahermosa, dove aveva incontrato un gruppo di trafficanti poco raccomandabili, che lo avevano convinto a salire su un piccolo aereo la cui bussola era stata coperta con un pezzo di stoffa, in modo che il collezionista non sapesse dove lo stavano portando.

Una volta atterrato in una piccola pista nella foresta, il collezionista si era incontrato con un gruppo di contadini che gli avevano mostrato quanto avevano trovato. In cambio della maschera e del codice, Sáenz offrì 2mila dollari, ma i contadini rifiutarono mettendogli sotto il naso un catalogo Parke-Bernet di arte precolombiana. Trovato l’accordo per una cifra molto superiore, il collezionista ritornò a Città del Messico coi due oggetti, prese contatto con esperti e mercanti e riuscì a portare i reperti negli Stati Uniti, raccontando quanto abbiamo riassunto.

Curiosamente, quasi nessuno, allora, notò che molti dettagli della storia erano inverosimili: i contadini col catalogo Parke-Bernet (nel 1965!), la bussola coperta con la stoffa (come se non fosse possibile orientarsi col sole) eccetera servivano probabilmente a rendere più attraente un «normale» e illegale traffico di reperti archeologici.

Subito dopo la presentazione del Grolier, cominciarono due battaglie. La prima, quella sulla «repatriation», si concluse nel 1976 quando il codice tornò in Messico. La seconda, quella sull’autenticità, si è invece trascinata per oltre quarant’anni. Come sempre in questi casi le analisi materiche non sono decisive.

Le analisi del C14, condotte già nel 1971, mostrano che la «carta» del codice risale al 1230+130 d.C., ma si sa che eventuali falsari potevano contare su notevoli quantità di sottocorteccia antica priva di glifi e disegni. Quelle sui pigmenti non avevano rilevato la presenza di coloranti moderni, che solo un falsario sciocco avrebbe potuto utilizzare.

In questa situazione la squadra che ha rivisitato il Grolier ha concluso che è autentico, facendosi forte di due degli elementi che i sostenitori della tesi opposta avevano messo in evidenza. 1) È diverso dagli altri tre codici maya precolombiani esistenti, perché proviene da un’altra regione e l’iconografia mostra un’evidente contaminazione con stilemi originari dell’Altopiano Centrale. 2) È di basso livello artistico e di scarsa utilità sul piano rituale perché non era destinato a essere usato dai sacerdoti e dagli scribi di corte.

A queste considerazioni, il team americano aggiunge che un eventuale falsario a metà degli anni Sessanta non poteva disporre delle informazioni e delle immagini delle divinità maya che sono state individuate nei decenni successivi. Inoltre, dato che i falsari tendono a riprodurre opere di buon livello artistico, è veramente difficile immaginare quale possa essere stata la fonte di un codice così brutto.

Antonio Aimi, 02 novembre 2016 | © Riproduzione riservata

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