Nam June Paik aveva capito tutto

Alla Tate Modern una grande retrospettiva del pioniere della videoarte

«Self-Portrait», 2005. San Francisco Museum of Modern Art, Phyllis C. Wattis Fund for Major Accessions. Foto: Katherine Du Tiel
Federico Florian |  | Londra

«La pelle è oramai inadeguata a interfacciarsi con la realtà. La tecnologia è diventata la nuova membrana del nostro corpo». Così scrisse Nam June Paik (1932-2006), artista coreano pioniere della videoarte e autore di imponenti installazioni gremite di televisori e dispositivi elettronici in perenne «mode-on».

Una pratica, la sua, che è stata in grado di predire l’importanza dei mass media e delle nuove tecnologie (quelle electronic superhighway a cui si ispirerà in un noto lavoro del 1995), nonché il futuro dell’informazione nell’età di internet. A Paik, la cui opera risulta decisiva in un’epoca plasmata dalla comunicazione digitale e dall’overload di immagini, la Tate Modern dedica dal 17 ottobre al 9 febbraio la più ampia retrospettiva mai tenuta in Gran Bretagna, e organizzata in collaborazione con il San Francisco Museum of Modern Art.

«L’ultima monografica di Paik a Londra
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