Il dito puntato verso l’osservatore, lo sguardo interrogativo, nel 1965 Remo Bianco apostrofava i passanti dai tram di Milano nel manifesto della sua personale nella galleria del Naviglio. Intitolata «Scusi signore...», l’immagine sarebbe diventata nel 1974 uno dei suoi «quadri parlanti», nei quali un altoparlante posto dietro alla tela si attivava all’avvicinarsi dello spettatore.
Remo Bianco (Remo Bianchi, 1922-88) aveva però iniziato a lavorare molti anni prima, tra la fine degli anni ’40 e i ’50, con le «Impronte», calchi di oggetti minuti e comuni fatti con gesso, cartone pressato o gomma, che trasformavano in bassorilievi le tracce della quotidianità, cui presto si aggiunsero i «Sacchettini-Testimonianze», inventari di oggettini raccolti in piccoli sacchetti di plastica, quasi una versione italiana (ma in grande anticipo) delle «time capsule» di Andy Warhol.
Intanto avviava i «3D» di plastica trasparente o vetro, i «Collages» e, dal 1957, i «Tableaux Dorés», portati avanti fino alla fine, che gli guadagnarono la notorietà. Proseguendo nella sua ricognizione dell’arte italiana del secondo ’900, specie nella fertile area milanese, il Museo del Novecento presenta, dal 5 luglio al 5 ottobre, la mostra «Remo Bianco. Le impronte della memoria» (catalogo Silvana), ricca di 70 opere e numerosi documenti, curata da Lorella Giudici con la Fondazione a lui intitolata.
Riporta così in luce il lavoro di un artista di grande valore, sempre (troppo) in anticipo sui tempi, come sostiene in un’intervista del 2012 (in catalogo) anche Marina Abramović, che lo frequentò nel 1977 a Ferrara e che da lui fu incoraggiata e aiutata.
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