Visse 27 anni soltanto, morì nel 1428 («di veleno», puntualizza Vasari) ed era trasandato e distratto («persona astrattissima e molto a caso») perché, spiegava, sempre concentrato nell’«arte sola»; tanto da dimenticare, spesso, di riscuotere i compensi. Finì così per essere conosciuto con il soprannome di Masaccio, mentre il suo nome era Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai (San Giovanni Valdarno, 1401-Roma, 1428).
Ma in sei soli anni di attività, Masaccio rivoluzionò la pittura, che anche a Firenze ancora si nutriva dei fasti cortesi e delle araldiche figure di Gentile da Fabriano, e spalancò un mondo nuovo, fatto di uno stile «puro e sanza ornato», abitato da figure solide e tridimensionali, protagoniste di storie in cui nulla è superfluo né tanto meno ornamentale.
Uno dei suoi capolavori era il monumentale polittico (oltre cinque metri) commissionatogli dal notaio ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto (che lo pagò 60 fiorini anziché gli 80 concordati) per la sua cappella in Santa Maria del Carmine a Pisa. Smembrato già alla fine del ’500, degli 11 elementi riconosciuti, sparsi in grandi musei del mondo, la cimasa centrale è conservata nel Museo di Capodimonte a Napoli: raffigura una disadorna e straziante «Crocifissione» su fondo oro, monumentale pur nelle dimensioni ridotte (83x63 cm), e ci mostra un corpo del Cristo più vero del vero, che pare prolungarsi nel manto rosso sangue della Maddalena prosternata.
Una geniale invenzione di Masaccio, che solo in seguito, con un colpo di teatro cromatico ed emotivo, la sovrappose al fusto della croce, tra la Vergine e san Giovanni. Dal 22 febbraio al 7 maggio la tavola è al Museo Diocesano di Milano, nella mostra imperdibile «La Crocifissione di Masaccio. Dal Museo di Capodimonte», dedicata ad Alberto Crespi, il mecenate scomparso di recente, che donò al museo milanese la sua collezione di fondi oro.
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