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Marco Magnifico. Foto: Gabriele Basilico, 2018. © Fai

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Marco Magnifico. Foto: Gabriele Basilico, 2018. © Fai

Marco Magnifico ci racconta le nuove scelte del Fai

Il Fondo Ambiente Italiano apre nuove mete che sono testimonianze del gusto borghese del ’900: la Casa Macchi a Varese con l’emporio di famiglia, la houseboat sul Lago di Como, la casa della musica Crespi e la casa degli antiquari Livio-Grandi a Milano

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Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Se Venezia sta soccombendo, soffocata da un overtourism che la sfigura (senza che alcuno sembri preoccuparsene davvero), e se lo stesso accade nelle altre storiche città d’arte, violentate da un affollamento insostenibile, il Fai-Fondo Ambiente Italiano Ets, con una lungimiranza che le è consueta, apre mete sempre nuove e sempre meno ovvie, ampliando in una direzione un tempo impensabile lo spettro della sua offerta culturale.

Non solo castelli, palazzi, dimore principesche, monasteri millenari carichi di arte e di storia, o siti naturalistici sbalorditivi, dalla Baia di Ieranto (la Baia delle Sirene, per Plinio il Vecchio) di fronte ai faraglioni di Capri, al giardino della Kolymbethra nella Valle dei Templi ad Agrigento, ma, da qualche tempo, anche testimonianze del gusto e del costume della media e alta borghesia nel XX secolo: come Casa Macchi a Morazzone, presso Varese, con l’emporio di famiglia rimesso in attività e, ricevute pochi mesi fa (apriranno nel 2026, dopo un recupero meticoloso), Casa Crespi e Casa Livio-Grandi a Milano, due esempi della vita della migliore borghesia del ’900, che alle ottime disponibilità economiche sommava solidi interessi culturali.

Ne parliamo con Marco Magnifico, presidente del Fai e sua «anima» sin dal 1985 quando vi entrò giovanissimo, al fianco dei fondatori Giulia Maria Crespi e Renato Bazzoni (preferendo il Fai a un posto da redattore a Torino, a «Il Giornale dell’Arte» che gli aveva suggerito suo zio, il collezionista Giuseppe Panza di Biumo).

Presidente, il Fai ha aperto di recente una nuova linea di acquisizioni, puntando anche su proprietà non sfarzose o spettacolari ma portatrici di storie più «feriali», seppure dense di cultura. È la risposta alle domande di un turismo culturale «nuovo»? 
Non parlerei di una «nuova linea»: piuttosto direi che abbiamo allargato lo spettro dell’Italia da raccontare. Non è accaduto per una scelta aziendale ma perché stimolati, come sempre, da una scelta del destino, che ci ha messo nelle mani oggetti come Casa Macchi a Morazzone: un bene che probabilmente qualche anno fa avremmo rifiutato senza nemmeno pensarci. Ed effettivamente, quand’è arrivata la notizia di questa eredità, di cui nulla sapevamo, con 1,5 milioni di dote, ho pensato che non c’interessasse. Poi sono andato a vederla con l’intento di offrirla al Comune con una parte della dote. Ma quando sono entrato, mi sono trovato di fronte a quella che l’allora presidente Andrea Carandini avrebbe poi definito, così efficacemente, «una Pompei dell’800»: era tutto intoccato da lunghissimo tempo, e tutto era talmente «perfetto» e commovente, che me ne sono innamorato. Perché tutto, in Casa Macchi, è improntato all’attenzione, al garbo, alla misura, all’oculatezza sacrosanta di una classe che conosceva il valore del denaro. Dettagli di una poesia infinita ai quali io, che ho vissuto quell’epoca, ho voluto dare la dignità di essere raccontati, trattandosi della qualità etica e sociale di una classe che, in silenzio, ha fatto l’Italia. Quindi parlerei di un allargamento e non un cambio di rotta. Quanto alla riuscita dell’impresa (ed è stato forse il restauro più complesso che abbiamo affrontato), io ne ero sicurissimo ma ammetto di aver fatto una certa fatica a farlo accettare. Sembrava una scommessa troppo azzardata, un capriccio. Invece ha funzionato.

Quanti visitatori avete avuto in Casa Macchi? C’è stata una ricaduta positiva sulla vita di questo borgo sempre più spopolato?
Abbiamo chiuso il 2023 con 20mila visitatori. Da quando abbiamo aperto Casa Macchi, nel centro storico di Morazzone, che si era svuotato a vantaggio delle nuove villette fuori paese, hanno aperto tre Bed & Breakfast, un ristorante e un caffè. Il progetto di Casa Macchi è nato a braccetto con il Comune e con la Regione Lombardia, e proprio di recente l’Assessorato regionale alla Cultura ci ha comunicato che nel report della Rete museale regionale, Casa Macchi si trova ai primi posti per apprezzamento. I visitatori si riconoscono in quel mondo, capiscono che il nostro patrimonio culturale non è stato creato dai soli aristocratici, ma anche dalla propria classe sociale.

Quindi l’acquisizione di questo bene non è stata frutto di una ricerca di mercato sulle richieste del turismo attuale? 
Assolutamente no: guai! Quelle ci porterebbero fuori strada. Sono convinto che noi, con la nostra sensibilità, dobbiamo anche avere il coraggio e l’audacia dell’imprenditore vero. Di chi rischia. Casa Macchi poteva essere un flop. Ci ho scommesso e ho avuto ragione: nel Varesotto abbiamo il Monastero di Torba, dove si va dal mondo romano alle monache longobarde, a 10 minuti d’auto, Casa Macchi e a 15 Villa Panza, con la sua strepitosa collezione d’arte contemporanea: a Villa Panza abbiamo 40-45mila visitatori all’anno, a Torba 25mila e circa 20mila a Casa Macchi, nel primo anno di apertura. Qui abbiamo anche riaperto l’emporio di famiglia, dove si vende di tutto: pasta, riso, caramelle, miele, liquore del Sacro Monte. È la drogheria che è stata un tempo. Lì si fa il biglietto d’ingresso e lì si può comprare ciò che si desidera. Una storia minuta? No, perché «patrimonio» è tutto ciò che è stato fatto, secondo i propri principi culturali, etici, di gusto, dalle varie classi sociali e dalle varie generazioni. Ed è per questo che, in ognuno dei nostri beni, da Palazzo Moroni con il suo parco, appena inaugurato in Bergamo Alta, a Casa Macchi appunto, c’è un breve videoracconto, realizzato da Daniela Bruno (vicedirettrice generale del Fai, Ndr) che suggerisce il filo rosso da seguire per entrare nel segreto del luogo.

C’è un’altra novità, però: Casa Crespi (una villa urbana in via Andrea Verga, a Milano, appartenuta a una famiglia d’industriali e poi al celebre giurista, musicista e musicologo Alberto Crespi) e Casa Livio-Grandi (un complesso di dimore di gusto storicista in via Olivetani), diventeranno anche dei centri di produzione di cultura. 
Sì, sebbene i nostri beni non siano stati mai dei semplici «musei di sé stessi» ma delle case di cui volevamo restituire l’atmosfera, lo stile di vita, le abitudini, ora c’è un ulteriore allargamento: Casa Crespi è una residenza di standing elevato, ma non ci sono pezzi eccezionali. Eccezionale è stato l’ultimo proprietario che, quand’era già un avvocato di fama, ha dato da privatista tutti gli esami al Conservatorio (pianoforte, direzione d’orchestra, direzione di coro) e si è fatto costruire in casa un organo imponente su cui suonava quotidianamente, soprattutto l’amato Bach. Perciò dedicheremo la sua casa, oltre che alla visita (qui ci sarà anche la collezione del Premio Bagutta, donata dalla famiglia Rocca), a progetti di comprensione della musica. Cercheremo cioè d’insegnare nel più semplice modo possibile, e partendo proprio da Bach, la struttura su cui si fonda la nostra musica (che cos’è una fuga, una giga, una sarabanda...) in modo che l’orecchio si alleni a «cogliere» la musica.

E in Casa Livio-Grandi, che ci è giunta in dono con una collezione d’importantissimi disegni e stampe antiche (i Grandi, antiquari famosi sin dall’800, hanno formato il gusto di generazioni della borghesia milanese e non solo), insegneremo, a chi lo vorrà, i rudimenti del disegno. Perché saper disegnare serve per capire meglio quello che si guarda. Il tutto, sempre, finalizzato all’«educazione del pubblico alla conoscenza», un pilastro dello statuto del Fai. Disegno e musica sono diventati saperi «periferici», che non s’insegnano più nelle scuole. Per chi lo vorrà, lo faremo noi.

Ci anticipa un’inaugurazione dell’anno prossimo?
Finalmente nel 2024 inaugureremo a Ossuccio, sul Lago di Como, la Velarca, l’houseboat forse più bella al mondo, che lo Studio Bbpr progettò nel 1958 per Aldo e Maria Luisa Norsa, una coppia di colti milanesi che volevano una casa «pieds dans l’eau» sul Lago di Como. Non trovandone, acquistarono un piccolo appezzamento sulla riva e una grande barca da trasporto dell’800 e, sopra, si fecero costruire la loro piccola, bellissima casa. Restaurarla è stato un lavoro lungo e pesante, perché solo in seguito scoprimmo che la chiglia era distrutta: ci hanno lavorato per anni dei maestri d’ascia comaschi ed è stata interamente rifatta. Ora rimonteremo la casetta dei Bbpr e potremo presentare un altro bene inatteso (inatteso come gli alpeggi con le nostre vacche, in Valtellina e sul Monte Grappa: quest’ultimo in restauro; il primo invece, già molto frequentato, produce eccellenti formaggi). È la somma di tutti questi beni che consente al Fai di avere una varietà di racconti capaci di creare un’enciclopedia che pochi altri hanno. Oltre a stimolare ricerche e studi in ambiti normalmente ritenuti secondari, dando loro la stessa dignità dei castelli o di una dimora dell’altissima borghesia milanese del ’900 come Villa Necchi Campiglio.

Leggi anche:
Il Fai acquisisce Casa Crespi e Casa Livio-Grandi a Milano
 

Ada Masoero, 21 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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