Le passioni di Berengo Gardin

In un libro la figlia racconta la vita e la carriera del fotografo novantenne

Gianni Berengo Gardin con il Lucie Award, Milano, 2008. © Archivio Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma
Redazione |  | ROMA

Leggendo le biografie di Gianni Berengo Gardin si apprende che il novantenne grande maestro (preferirebbe di sicuro essere definito grande artigiano) ha sempre fatto iniziare la sua vita fotografica intorno alla metà degli anni Cinquanta, fra Venezia e Parigi, tra il gruppo della «Gondola» e i «Nuovi Umanisti» francesi, da Henri Cartier-Bresson allo stimatissimo Willy Ronis.

E molti si sono sempre domandati chi fosse, e che cosa facesse, prima di diventare un fotografo degno del Premio Oskar Barnack (1995) e del Lucie Award (2008). Uno dei meriti di In parole povere. Un’autobiografia per immagini raccolta da Susanna Berengo Gardin (ill. col. e b/n, 208 pp., Contrasto, Roberto Koch Editore, Roma 2020, € 22,90), redatta dalla figlia Susanna in seguito a varie conversazioni col padre, è proprio quello di aprire una finestra sull’infanzia, l’adolescenza e la prima gioventù attraverso la narrazione di vicende private che si mescolano con quelle pubbliche, in un’Italia che passa dal fascismo alla guerra alla ricostruzione.

Poi, naturalmente, c’è tutta la passione per la fotografia, che trasuda da ogni parola come da ogni scatto, gli aneddoti che hanno per protagonisti i grandi nomi della fotografia nazionale e internazionale, dai maestri come Monti, Mulas, Dondero a Ferdinando Scianna che firma anche l’introduzione (in chiusura una conversazione tra l’autore e Roberto Koch), fino al compianto amico Basilico, per poi giungere a Salgado, Koudelka e tanti, tanti altri.

Innumerevoli gli amici, moltissime le fotografie e un numero altissimo di libri, l’amore più sfrenato di Berengo Gardin, sia come autore che come collezionista (assieme alle auto sportive di colore rosso), ai quali si aggiunge questa autobiografia di cui pubblichiamo uno stralcio:

«Solo successivamente mio fratello mi regalò una piccola Zeiss Ikon Ikonta 6x6, con cui cominciai ad ampliare i soggetti delle mie fotografie. Inquadravo qualsiasi cosa mi capitasse a tiro, soprattutto durante le brevi vacanze. C’è un’immagine scattata in quegli anni che ritrae un albero riflesso nel lago di Lugano, una foto «artistica» di cui oggi non riesco più ad apprezzare le qualità ma che allora mi sembrava bellissima, tanto da inviarla a diversi concorsi. La fotografia aveva iniziato a essere qualcosa di più che una passione estemporanea.

Ero alla ricerca di qualcuno che mi potesse insegnare la via per realizzare delle belle immagini e lo trovai proprio vicino al nostro negozio di famiglia, dove avevo iniziato a dare una mano alle zie per poter contare su qualche piccola entrata extra. A pochi passi da lì, ai piedi del Ponte dei Dai, sul Rio de le Procuratie, lungo la strada che si doveva fare per raggiungere il vespasiano detto «le sette sorelle» di Calle del Cappello, c’era il negozio Foto Record dei fratelli armeni Hrant e Vasken Pambakian e di Gerardo Mavian. Nella vetrina del sottoportico erano esposte alcune riviste di fotografia straniere allora quasi introvabili in Italia, fra tutte «Camera», e le fotografie dei membri del circolo fotografico La Gondola.

Il negozio dei Pambakian era ormai da anni un luogo di ritrovo per gli amanti della fotografia. All’ora dell’aperitivo vi potevi incontrare i membri del circolo fotografico fondato alcuni anni prima da Paolo Monti, Gino Bolognini, Alfredo «Giorgio» Bresciani, Luciano Scattola e altri. Fu così, nei primi anni Cinquanta, quando ancora la mia produzione era limitata alle foto di aerei e a qualche scatto realizzato durante le vacanze, che entrai in contatto con il circolo La Gondola, cui però mi iscrissi solo nel 1954, prima del mio viaggio «di formazione» a Parigi.

Inizialmente me ne stavo in un angolo ad ascoltare gli altri, cercando di imparare quante più cose possibile. Tutto mi incuriosiva perché si impara così a fotografare: guardando le foto dei grandi maestri e ragionando sul loro lavoro, sul perché hanno realizzato quelle immagini. E poi osservando i propri contemporanei, parlando con loro, cercando di comprendere le scelte e le posizioni. Oltre ai fondatori, tra i frequentatori della Gondola in quegli anni ricordo Giorgio Giacobbi, Carlo Bevilacqua, Mario Bonzuan, Toni Del Tin, Fulvio Roiter. Io legai soprattutto con Giuseppe (detto Bepi) Bruno.

Venezia ci dava costantemente lo stimolo per mettere alla prova le nostre possibilità espressive. Credevamo profondamente in ciò che facevamo, ci confrontavamo, imparando gli uni dagli altri e condividendo ideali e aspirazioni. In quegli anni la fotografia, fuori dalla propaganda del fascismo, finalmente poteva concentrarsi sulla realtà e mostrarne tutti i cambiamenti, culturali, sociali e industriali. C’era una nuova indipendenza creativa anche per noi, giovani fotografi.

L’incontro con il circolo e in particolare con Paolo Monti, uomo di grande cultura e simpatia, fu fondamentale per la mia crescita come fotografo. Anche se nel 1953 si era trasferito a Milano, continuava a venire spesso a Venezia. Lavorava con la Soprintendenza e i musei civici e a volte, durante le sue note campagne di documentazione di architetture in città, con Bepi Bruno gli facevamo da assistenti.

Memorabile fu una sera in cui Monti aveva urgenza di stampare delle foto di Palazzo Ducale. Andammo nella camera oscura di Bepi e cercammo di lavorare in tempi rapidi. Le fotografie uscivano però tutte nere e non riuscivamo a capire perché. Riprovammo dando meno luce, ma di nuovo tutto nero. Solo allora ci rendemmo conto che, presi dall’emozione di lavorare con Paolo Monti, ci eravamo dimenticati di spegnere la lampada, che continuava a bruciare la carta.

Quando mi sono spostato da Venezia a Milano, ho continuato a frequentare Monti alla Galleria Il Diaframma in via Brera. A volte lo portavo con me in macchina a Venezia e condividevamo viaggi e conversazioni che sono stati pilastri portanti della mia formazione»
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