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L’installazione del collettivo artistico giapponese teamLab realizzata nel 2018 per il Mori Building Digital Art Museum di Tokyo (particolare)

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L’installazione del collettivo artistico giapponese teamLab realizzata nel 2018 per il Mori Building Digital Art Museum di Tokyo (particolare)

Le macerie della bolla speculativa della digital art

Ciò che rimane delle rapaci speculazioni di una follia per gli Nft durata solo un anno. Ma la pittura in versione ultracontemporanea ha un rilancio

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Alberto Fiz

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Modellazione 3D, metaverso, machine learning, realtà aumentata, intelligenza artificiale. Il mondo è cambiato alla velocità della luce, ma il mercato dell’arte non sembra accorgersene. Dopo la sbornia degli Nft che negli ultimi ventiquattro mesi hanno perso il 90% rivelandosi una bolla senza precedenti, gallerie e case d’asta hanno voltato pagina. Quel settore che aveva infervorato criptocollezionisti e speculatori diventando la gallina dalle uova d’oro e la frontiera dei nuovi investimenti sostenuta da dichiarazioni altisonanti di guru, influencer e strateghi del mercato, è tornato a rappresentare una nicchia secondaria.

Del resto, le piattaforme delle major come Sotheby’s Metaverse e Christie’s 3.0 sono prodotti piuttosto defilati nati durante il boom del 2021 e oggi tenuti in vita con scarsa energia. Le fiere internazionali più importanti come Art Basel o Frieze sembrano disinteressarsi alla tecnologia (fa eccezione Art Dubai che dall’1 al 3 marzo presenta Art Dubai Digital a cura di Alfredo Cramerotti e Auronda Scalera) e gran parte delle supergallerie come Gagosian, Hauser & Wirth o David Zwirner per ora stanno alla finestra. Il digitale langue, almeno per il mercato che, al contrario, ha rilanciato la pittura promuovendola come ultracontemporaneo.

Così le nuove tecnologie, anziché rappresentare la punta più avanzata del sistema, appaiono il fanalino di coda in un mondo che, almeno sotto il martello del banditore, va all’incontrario. In seguito alle rapaci speculazioni del 2021, al mercato restano le macerie di una follia durata solo un anno con listini che assomigliano a un campo di battaglia dove si sono consumati autentici massacri nei confronti di un’arte che meritava maggior rispetto.

Il caso più clamoroso sono i 69,3 milioni di dollari (al cambio in Ethereum) pagati l’11 marzo 2021 durante l’asta online di Christie’s dal raider della criptofinanza Vignesh Sundaresan per acquistare «Everydays: the First 5000 Days», un collage digitale in formato jpg del pubblicitario americano Mike Winkelmann in arte Beeple. Di lui sono rimaste poche tracce e la sua ultima opera proposta al miglior offerente è stato un Nft che presenta emblematicamente un toro infettato dall’Ethereum venduto il 14 settembre 2022 da Sotheby’s a New York per 100mila dollari, almeno il triplo del prezzo attuale.

Sebbene il 2021 sia stata una grande occasione persa, oggi appare assai difficile delineare i confini dei nuovi media in quanto, come afferma Valentino Catricalà, curatore della Soda Gallery di Manchester: «Siamo di fronte a una sempre più evidente ibridazione dei linguaggi e il numero di artisti che lavora con la tecnologia appare in crescita esponenziale. Per questo diffido da chi sfoggia la tecnica senza esprimere contenuti originali».

Detto ciò, salvo chi si è imposto in altri ambiti come nel caso di Urs Fisher, Damien Hirst o Pierre Huyghe e sperimenta il digitale come fenomeno di ritorno, i new media artist fanno fatica a trovare uno sbocco nell’ambito del mercato tradizionale. Anche nomi estremamente popolari come l’americano Ian Cheng, con le sue creature serpentiformi che apprendono da esperienze sensoriali, o l’inglese Ed Atkins, che crea avatar paradossali in Cgi (immagini generate al computer), pur essendo nella scuderia di Barbara Gladstone (recentemente si è fusa con Gavin Brown), tra le pochissime gallerie top insieme a Pace a dare spazio alle nuove tecnologie, vengono ignorati dal martello. Di Cheng in asta non compare nemmeno un risultato e Atkins ha appena sette passaggi che non vanno mai oltre i 1.200 euro. Persino il turco-americano Refik Anadol, il più popolare tra gli artisti che animano l’universo digitale per le sue spettacolari installazioni immersive nate dal sofisticato uso dell’intelligenza generativa (in Italia ha esposto per la prima volta nel 2020 al Meet, il centro milanese di cultura digitale, di recente è entrato nella collezione permanente del MoMA e dal 16 febbraio al 7 aprile espone alla Serpentine di Londra), ha in asta risultati piuttosto sconcertanti.
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Se il 4 ottobre 2021 durante l’anno del boom, da Sotheby’s a Hong Kong «Machine Hallucinations-Space: Metaverse» ha stabilito il prezzo record di 2 milioni di euro, il 13 dicembre scorso da Phillips a Hong Kong un’altra installazione ugualmente significativa, «Bosphorus B: Data Sculpture», non ha superato i 128mila euro. «Nonostante l’interesse verso i linguaggi mediali e postmediali, non c’è dubbio che esiste ancora un forte scostamento rispetto ai valori di mercato, ammette Maria Grazia Mattei, fondatrice e presidente del Meet. Manca un sistema integrato in grado di coinvolgere banche, collezionisti e gallerie. Le stesse problematiche sono state affrontate dalla fotografia, che pur con alti e bassi ha trovato uno spazio duraturo nell’ambito del mercato».

La relazione appare opportuna rispetto a una realtà che si è imposta alla fine degli anni ’90 con una netta distinzione, talvolta arbitraria, tra fotografi-fotografi e fotografi-artisti. Nella seconda categoria sono rientrati i protagonisti della Scuola di Düsseldorf dove, sotto la guida di Bernd e Hilla Becher, si sono imposti allievi diventati celebri quali Thomas Struth, Candida Höfer, Thomas Ruff e Andreas Gursky. Intorno a loro si è mosso tutto l’apparato culturale e commerciale tedesco e in poco tempo si è giunti a un’affermazione internazionale.

L’arte digitale non è certo nata al tempo degli Nft come immaginano i più ingenui, ma ha un background che risale agli anni ’60. Eppure mancano una consapevolezza storica e ricerche adeguate. Pionieri della Computer art quali Georg Nees, Manfred Mohr o John Whitney sono totalmente sconosciuti, anche se qualcosa sta cambiando e dal 3 febbraio a maggio il Whitney Museum di New York rende omaggio al padre dell’Intelligenza Artificiale Harold Cohen, scomparso nel 2016, che sul mercato ha ancora quotazioni generalmente inferiori ai 2mila euro. In mancanza di un’informazione obiettiva ed esauriente, le problematiche per una giusta valorizzazione sono molteplici e vanno rintracciate nella caratteristica del mezzo, come sottolinea Laura Cocciolillo specializzata in estetica dei nuovi media: «Sebbene gli Nft abbiano ovviato al problema dell’autenticità del file digitale, non sono ovviamente riusciti a dare materialità all’opera. Ed è proprio la mancanza di oggettualità che ostacola l’appagamento del collezionista». Le fa eco Domenico Quaranta, autore di numerosi saggi sull’argomento tra cui Media, New Media, Postmedia: «È assolutamente prevedibile che un mercato fondato sulla vendere di artefatti preziosi abbia più facilità a commercializzare un quadro o una scultura, rispetto a un sito web o a un file digitale. Questa situazione non può cambiare per la stessa ragione per cui il mercato di Duchamp è ridicolmente più striminzito di quello di Picasso».

L’immaterialità dell’opera è certamente uno degli ostacoli maggiori. Ma è probabile che persista anche un pregiudizio di carattere estetico verso un linguaggio non ancora metabolizzato dove la virtualità introduce problematiche complesse in un’espansione progressiva di contenuti multidisciplinari del sapere. Del resto, le opportunità di fruizione sono sempre più ampie e accanto alle fotografie digitali o alle installazioni immersive, non mancano applicazioni di sicuro interesse. Rimanendo agli artisti italiani, basti pensare al «Monumento continuo» creato da Eva e Franco Mattes che, come affermano sul loro sito 0100101110101101.org, «è una soluzione architettonica senza continuità che abbraccia il mondo», alle sculture digitali di Davide Quayola, agli screen painting di Giuliana Cunéaz dove la pittura interagisce con le animazioni in 3D o al Quadro Mediale di Davide Coltro, un’opera cangiante che l’artista modifica da remoto. In attesa che si aprano le porte del mercato ufficiale, il digitale ha saputo costruire una serie di alternative destinate ad ampliarsi sempre più.

I «carbonari» di un tempo, come li ha definiti Catricalà, sono accolti da istituzioni che prima li ignoravano, come dimostra la recente attività della Serpentine di Londra diretta da Hans Ulrich Obrist. Nello stesso tempo, sono in costante crescita le committenze (il Whitney di New York o il Superblue di Miami ne sono un esempio). In tutto il mondo, poi, nascono progetti per nuovi musei di arte digitale (ma quello di Milano previsto nell’ex Albergo Diurno di Porta Venezia si è arenato) e dopo Tokyo il collettivo artistico giapponese teamLab sta lavorando al Digital Art Museum di Amburgo, realizzato con il sostegno di Ubs, che si aprirà nel 2025.

Anche in Italia nascono iniziative virtuose e Var Group, la società specializzata nei servizi e nelle soluzioni digitali, oltre a sostenere le produzioni, nel 2023 ha istituito il Vda Award, il premio a cadenza biennale per gli artisti digitali, vinto da Luca Pozzi. A rassicurare chi avesse dei dubbi sulla salute del digitale ci pensa Giacomo Nicolella Maschietti, giornalista e consulente di comunicazione strategica: «Il digitale sta bene, anzi benissimo. Nella storia recente dell’umanità non abbiamo mai visto fare passi indietro a seguito di un’invenzione. Non siamo tornati ad andare a cavallo dopo aver creato le prime automobili. Lo stesso sta avvenendo con il digitale di cui non potremo fare a meno». E il mercato si adeguerà. Forse.

Alberto Fiz, 16 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

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