Le lune di Geerk

Luci fredde e atmosfere desolate caratterizzano le suggestive tele dell’artista svizzero-tedesco in mostra da Massimodecarlo

Una delle opere di Lenz Geerk in mostra da Massimodecarlo (particolare)
Ada Masoero |  | Milano

Pittura, e ancora pittura, da Massimodecarlo a Milano, che il 15 dicembre inaugura in Casa Corbellini-Wassermann «Moonpaintings» (fino al 28 gennaio), prima personale di Lenz Geerk in città e nella galleria. «Perché la luna?» si domanda l’artista, che risponde a se stesso con l’argomento singolare che la luna «è diventata un oggetto così kitsch che dipingerla è quasi scomodo. Se qualcosa è sconveniente, mi piace dipingerlo».

Infatti, la luce lunare è da tempo un motivo ricorrente nelle opere di quest’artista di cultura germanica, nato a Basilea nel 1988, che vive e lavora a Düsseldorf, e che è, con evidenza, influenzato nei temi dal Romanticismo tedesco, dalle sue luci fredde e dalle atmosfere di volta in volta allarmanti o desolate.

Così come turbati sono i suoi personaggi dai volti androgini e dall’espressione pensosa, che rispecchia un’interiorità inquieta. Singolari sono anche i colori, acrilici ma stratificati e opachi, deliberatamente «sporchi», sebbene accesi talora da lampi vividi, come nell’abito rosso della figura femminile scelta a simbolo della mostra.

Accanto al Romanticismo tedesco, Geerk attinge tuttavia anche alle fonti della pittura metafisica e surrealista, dando vita a un vocabolario del tutto personale, ben riconoscibile nel panorama contemporaneo. Fra i dodici dipinti esposti a Milano, in larga misura dedicati all’introspezione, con le figure immobili colte nell’intimità di una riflessione, alla luce della luna (che talora, però, è essa stessa la sola protagonista del dipinto), l’artista ha anche voluto rievocare la militanza ambientalista.

In «Moonpainting II» ricorda, infatti, le proteste degli attivisti che nel 2018 presidiavano la foresta millenaria di Hambach, in Germania, per impedirne la distruzione, costruendo rifugi sugli alberi e vivendo lì. Perché, spiega con semplicità, «era una così bella immagine che ci ha messo in contatto con la natura, permettendoci di tornare da dove siamo venuti».

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