Le imponenti sculture di Mike Nelson

Alla Hayward Gallery le installazioni interattive dell’artista britannico spingono gli spettatori a immaginare una storia, invitando a un gioco di possibilità apparentemente infinito

«Studio Apparatus for Kunsthalle Münster» (2014) di Mike Nelson. Foto Thomas Wrede. Cortesia artista e 303 Gal.,NY; Gal. Franco Noero, Torino; Matt’s Gal., Londra; neugerriemschneider, Berlino
Jenny Dogliani |  | Londra

I lavori di Mike Nelson sono concepiti come delle atmosfere, delle esperienze narrative, estetiche e sensoriali. Sono «opere immersive che agiscono su più livelli», come spiega l’artista britannico e come sa chi visita la sua personale «Extinction Beckons», curata da Yung Ma per la Hayward Gallery, dov’è allestita dal 22 febbraio al 7 maggio. Imponenti sculture e nuove versioni di alcuni tra i suoi più noti lavori ridisegnano lo spazio espositivo.

«The Deliverance and the Patience» (2001), per esempio, è la reinterpretazione di un’opera che trae il titolo da due galeoni salpati dalle Bermuda alla Virginia nel XVIII secolo, un labirintico viaggio denso di riferimenti storici e letterari. Assi di legno, porte e materiali da cantiere danno forma a frammenti di scale, stanze e corridoi evocando un mondo perduto, spettrale, disabitato.

«Triple Bluff Canyon» (2004) è un vicolo cieco che ci conduce in un cumulo di sterile sabbia del deserto. Un monumento al nulla e al tutto, al vuoto che l’universo contiene e da cui è circondato. L’idea di arte di Nelson è racchiusa nella grande installazione «Studio Apparatus for Kunsthalle Münster» (2014): una gabbia in rete metallica, di quelle usate per armare il cemento, ricorda una moderna cattedrale. Ancora una volta è il vuoto a dominare. Un vuoto ingabbiato in un reticolo simile a un monumento modernista entro il quale sono appese maschere in cemento raffiguranti personaggi dell’orrore, scrittori o politici.

«Le installazioni di Mike Nelson sono interattive nel senso migliore del termine, spiega il direttore della Hayward Gallery Ralph Rugoff. Spingono ogni spettatore a immaginare una storia, invitano a un gioco di possibilità apparentemente infinito pur evocando scenari desolanti». Perché in fondo, come disse l’extraterrestre a Ellie nel film «Contact», «In tutte le nostre ricerche, la sola cosa che rende il vuoto sopportabile siamo noi stessi».

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