«Studio per Henri Michaux» di Ernest Pignon-Ernest © Cortesia della Galerie Lelong & Co.

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«Studio per Henri Michaux» di Ernest Pignon-Ernest © Cortesia della Galerie Lelong & Co.

Le frasi a briglia sciolta di Henri Michaux

Nel volume edito da Quodlibet l’eccentrico scrittore e pittore di origine belga ci guida in viaggi immaginari in Paesi che non esistono

Stefano Causa

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Scrittore e pittore Henri Michaux (1899-1984) è il tesoro meglio custodito della cultura europea del dopoguerra. Belga di adozione francese, l’avergli dedicato una strada nel tredicesimo arrondissement parigino è già qualcosa; così come averlo fatto accomodare, sul piano cartaceo, tra i santi autori della Pléiade a partire dalla fine del secolo scorso.

Con tutto ciò è dubbio che Michaux, scomparso da una quarantina d’anni, diverrà, come invece merita, un indirizzo obbligatorio nella costellazione moderna. Ugualmente l’anno è passato senza che siano stati dati copiosi segni di ricevuta di un libro anomalo e scardinante, pubblicato nel 1967 e che ha ripreso a camminare da noi con la migliore delle scorte. Viaggi immaginari in Paesi che non esistono, con nomi impossibili e personaggi fintamente veri che aspettavano solo che qualcuno li inventasse. Il tutto tirato fuori con una scrittura che «viene fuori come la bava delle lumache o come gli escrementi che ogni giorno evacuiamo». Così, benissimo, li descrive il sondriese Gianni Celati, scomparso un anno fa.

Quanto a questo scrittore che non assomiglia a nessuno e a nessuno sembra rimandi, da noi circolava già. Einaudi lo fece salire a bordo già a fine anni Sessanta. Adelphi timonata da Calasso pubblicò quanto poteva: imperdibili Passaggi e Brecce che, fin dal titolo, introducono il lettore a questa pagina fatta di schegge, una prosa che fa a meno della prosa. Un grande lavoro di diffusione dell’opera di Michaux è stato fatto dall’editore Quodlibet. Meno noto il fatto che in tempi non sospetti Michaux sia stato tenuto d’occhio dagli storici d’arte (in senso ampio). Già nel primo numero di «Paragone», nel 1950, Longhi offriva estratti dello scrittore allora cinquantunenne.

La prima cosa da fare con libri privi di istruzioni per l’uso e segnaletica varia è quella di levarsi i guanti. Evitare ogni profilassi. Smettere di esercitare il mestiere di rubricatori e incasellatori, preparandosi a una pagina senza un centro prospettico, che viene dal nulla e non va da nessuna parte. Un Proust o, se si vuole, un Céline deflagrati in limatura di ferro irriducibile a una forza magnetica. Michaux rimane lì: in una zona franca tra Klee e Twombly, tra ideogrammi e improvvisazioni del jazz modale (in cui gli accordi non necessariamente rispondono alle regole dell’armonia tonale). E lascia sgomenti.

Certo, tornando al volume, la traduzione di Celati è un valore aggiunto. Michaux più Celati: paghi uno e porti a casa uno e mezzo. Però non riemerge un ibrido, non foss’altro perché ciò che Celati dice di Michaux si adatta più o meno bene anche a sé: «Michaux insegue un rilassamento senza programmi, senza strategie, per lasciarsi prendere di sorpresa dalle frasi che spuntano sulla pagina».
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Altrove. Viaggio in Gran Garabagna. Nel paese della Magia. Qui Poddema,
di Henri Michaux, traduzione e cura di Gianni Celati e Jean Talon, 232 pp., Quodlibet, Macerata 2022, € 16

Stefano Causa, 14 gennaio 2023 | © Riproduzione riservata

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