Nel 1997 si aggiudicò il Turner Prize con il suo «60 Minutes Silence»: un videoritratto di un gruppo di 27 poliziotti, costretti a restare in posa per 60 minuti, e il cui disagio si manifesta gradualmente attraverso leggeri movimenti del corpo, battiti di ciglia e oscillazioni della testa.
Per Gillian Wearing (1963), l’artista britannica ex YBA e compagna d’avventura di Damien Hirst e Tracey Emin, il ritratto ha sempre rappresentato un prezioso strumento di ricerca: un mezzo insostituibile per esplorare la tensione tra identità e società, ben prima dell’epoca dei selfie e della tirannia dei social media.
La sua è una carriera lunga tre decenni, che comincia da una serie celeberrima di fotografie: «Signs that Say What You Want Them To Say and Not Signs that Say What Someone Else Wants You To Say» (1992-93), in cui estranei immortalati per strada tengono in mano dei cartelloni su cui leggiamo messaggi scritti da loro in prima persona.
Un lavoro animato da una strategia semplicissima ma geniale: invertire la logica della fotografia documentaria tradizionale per dare voce (letteralmente) al soggetto ritratto.
Fino al 4 aprile il Solomon R. Guggenheim ospita la prima retrospettiva in Nord America dedicata alla Wearing (a cura di Jennifer Blessing e Nat Trotman). Tra i pezzi forti, la serie «Spiritual Family», avviata nel 2008: fotografie in cui l’artista, facendo l’occhiolino a Cindy Sherman, si serve di parrucche e protesi di silicone per tramutarsi in vari attori della storia dell’arte (come Andy Warhol o Diane Arbus).
Più di cento le opere in mostra, realizzate tra gli anni Novanta e i giorni nostri. Tra le produzioni più recenti, due nuovi lavori presentati in anteprima qui a New York: un corpus di dipinti creati in risposta alla pandemia, e una scultura-ritratto dall’aspetto di un gigantesco bracciale a ciondoli, metafora della complessa relazione tra identità e autenticità.
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