Una veduta dell’allestimento. Foto Giorgio Perottino

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Una veduta dell’allestimento. Foto Giorgio Perottino

Lawrence Abu Hamdan guarda attraverso il suono e ascolta attraverso le immagini

Alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino la videoinstallazione «Air Pressure (A diary of the sky)» racconta la violenza nei cieli del Libano

L’occhio sulla Torino Art Week 2022

Si dovesse ricorrere a una sola parola per raccontare le mostre inaugurate alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo durante l’Art Week torinese potrebbe essere «intossicazione». Una storia di intossicazione fungina che può indurre a spasmi, allucinazioni e isteria di massa emerge nella mostra «Liquid Transfers» di Diana Policarpo, vincitrice del Premio illy, come parte della sua ricerca sulle implicazioni economiche, sociali e politiche dell’impiego dei funghi.

Un’intossicazione che ha la forma della luce mortifera che cade sui corpi ritratti da Victor Man nella mostra «Eyelids, Towards Evening», che raccoglie venti opere con un focus sul ritratto e sull’autoritratto.

Ed è una storia di intossicazione sonora quella raccontata fino al 28 febbraio nella videoinstallazione «Air Pressure (A diary of the sky)» di Lawrence Abu Hamdan, terzo assegnatario della Future Field Commission in Time-Based Media un’iniziativa della Fondazione Sandretto in collaborazione con il Philadelphia Museum of Art.

La premessa dell’arte di Abu Hamdan è quella di creare le condizioni necessarie per leggere e ascoltare una storia in un modo molto diverso da come siamo abituati a sentirla e vederla. In virtù di questo lo spazio espositivo diventa il luogo che può mostrare le testimonianze di storie che altrimenti non saremmo in grado di conoscere. È necessario sviluppare un linguaggio estetico che sia capace di raccontare queste storie e l’indagine sonora si rivela essere nella sua pratica artistica lo strumento d’elezione per costruire un vocabolario con cui descrivere la realtà. Il suo lavoro di ricercatore audio coglie la dimensione politica del suono attraverso la raccolta e l’analisi di dati di diversa natura come registrazioni sonore, immagini provenienti da tecnologie di sorveglianza e materiali d’archivio.

Con «Air Pressure (A diary of the sky)» Abu Hamdan s’inoltra nell’investigazione sonora dei cieli sul Libano, a partire da episodi di violazioni aeree da parte dell’aviazione israeliana che infrangono gli accordi tra le due Nazioni mediati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il lavoro si concentra sulla violenza atmosferica della presenza massiva, quanto violenta e illecita, di macchine aeree nel territorio libanese, una presenza funesta che ha reso il cielo un nemico di chi è sotto di lui. L’installazione sonora e cinematografica di «Air Pressure (A diary of the sky)» restituisce in maniera tangibile queste ricorrenti violazioni, proponendo una riflessione sulla violenza atmosferica che è diventata parte della vita quotidiana libanese.

Il punto di partenza è una collezione sterminata di dati raccolti attraverso i social media usando l’hashtag arabo #حربي_بالجوواء, traducibile in #guerranellatmosfera. Un cielo cucito insieme a partire dalle immagini prodotte collettivamente in diversi luoghi del Libano dalla comunità che, sotto le esplosioni acustiche provocate dai voli militari, ha rivolto i propri cellulari al cielo. E la forma del diario tiene insieme una quantità sterminata di materiale, imponendogli un ordine nella forma di capitoli che seguono una scansione temporale. Il flusso è quello imprevedibile dei diari che fonde insieme elementi del vissuto dell’artista come la nascita della figlia, il compleanno di un amico, a episodi di violazione come la prima volta che si è sentito un jet dell’Israeli Air Force, un momento e un suono indelebile nella memoria dei libanesi, prima che diventasse parte del paesaggio sonoro quotidiano.

Abu Hamdan conduce la sua ricerca della verità procedendo per accumulazione analogica di informazioni e immagini di natura digitale, un lavoro costante che risponde a una carenza di informazioni. I suoni raccolti hanno il valore di prove e testimonianze di un reato, presentate con rigore e precisione, a partire dall’esperienza umana, colta nella sua fallibilità. Non c’è gerarchia tra i sensi, la vista non basta a sé stessa e il suono può ingannare. L’arte è uno strumento di ricerca della verità che ha bisogno di un lavoro senza sosta di raccolta di suoni immagini e parole, che permetta di guardare attraverso il suono e ascoltare attraverso le immagini.

Il risultato del processo di raccolta e mappatura dei dati riesce a tracciare un’ecologia del suono. Troviamo i ronzii a bassa frequenza, le cannonate dell’Iftar che segna la fine del digiuno durante il Ramadan, le finestre che vibrano al passaggio degli elicotteri dell’esercito libanese, il suono ricorrente indelebile di vetri rotti, il silenzio assordante di Hezbolla che nasconde bombardamenti più lontani. È un paesaggio sonoro che sottopone la comunità a una violenza costante e inesorabile con il suo stillicidio di violazioni che sembra applicare il motto «non senti mai lo sparo che ti uccide».

Abu Hamdan ricostruisce l’impatto dell’inquinamento acustico sulla salute della comunità libanese con un aumento dei valori di cortisolo, della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna, sintomi che nel tempo potrebbero causare l’ispessimento delle pareti delle arterie e un aumento dei depositi di calcio nel sangue. Il suono rivela qui il suo aspetto più materiale.

Un suono che dal cielo tocca terra come se qualcuno stesse stracciando tessuti di tela cerata. Perché è questo che riesce a fare il suono, portarci in una dimensione metaforica, dove qualcosa sta sempre per qualcos’altro. Un suono per un altro suono, che a sua volta rimanda a un oggetto. È un gioco di metonimie che nella ricerca di Abu Hamdan diventa la strategia di costruzione di un vocabolario sonoro e che ritroviamo nel display della mostra. Il video, proiettato su uno schermo di tela cerata, rende il cielo una superficie tangibile e incredibilmente vicina. Ogni piega, cucitura e grinza del tessuto rimandano a una materialità di quel cielo che lo abita. Un cielo continuamente attraversato da geometrie di scie, tagli e poi suture e di nuovo squarci. Lo schermo inclinato sulla sala incombe su chi gli rivolge lo sguardo, si fa sovrastante e minacciosamente vicino, innescando un’empatia nei confronti di chi subisce la violenza di quel cielo.

Un altro schermo all’ingresso della mostra dà accesso al sito airpressure.info, un database che rende visibile la totalità delle invasioni aeree illegali israeliane del Libano. Scorrerne la cronologia dà le vertigini, e gli intervalli tra le violazioni sono anche più assordanti. È un silenzio che tuona, come il silenzio che segue gli spari.

Una veduta dell’allestimento. Foto Giorgio Perottino

Mariacarla Molè, 04 novembre 2022 | © Riproduzione riservata

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