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La trouvaille a norma di legge

Annullare il contratto è possibile anche a distanza di molti anni

Fabrizio Lemme

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Vilfredo Pareto, economista, innanzitutto, ma anche fondatore della moderna Sociologia, nella sua fondamentale opera Les systèmes socialistes (1902) individuò come ogni sfera dell’agire umano avesse dei miti, che ne costituivano la motivazione e il motore. Nel campo del collezionismo d’arte, il mito motore è costituito dalla «trouvaille», ossia dalla segreta speranza, che muove ogni acquirente, di trovare, presso un venditore inesperto, un tesoro, un oggetto irripetibile, una testimonianza inedita e fondamentale. Lo aveva notato già Goldoni, scrivendo la deliziosa commedia La famiglia dell’antiquario: il protagonista conte Anselmo, accanito collezionista, è sempre alla ricerca della trouvaille, ma raccoglie solo buggerature (Brighella è abilissimo a confezionarle), sempre convinto di aver acquistato un tesoro «per un boccone di pane».

Diciamoci la verità: tra tutti coloro che sono affetti da quella malattia che si chiama «collezionismo», chi non si rallegra di avere scoperto che una stampa sia in realtà un disegno, che una litografia sia in realtà un originale, che un’opera rara sia stata acquistata a un prezzo particolarmente conveniente? Certo, la trouvaille non costituisce l’unica ragione che spinga a raccogliere oggetti d’arte ma è la segreta speranza, a volte irraggiungibile, di ogni collezionista. Pure, qualche volta la trouvaille è vera e reale: almeno, tale la reputa un mio anonimo lettore, che, convinto di aver acquistato splendidi cammei romani per un prezzo vile, mi chiede se possa pubblicarli senza il timore di iniziative giudiziarie del suo originario venditore. Conoscevo il problema: un collezionista che è anche avvocato non può ignorarlo e più volte ho dovuto spiegarlo ad amici o clienti.

L’art. 1429 n. 2 cod. civ. recita testualmente che «l’errore è essenziale (ed è dunque vizio del consenso, possibile causa di invalidazione del contratto) quando cade sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso». Ora, si discute se la riferibilità di un bene culturale a un determinato secolo o a un determinato autore costituisca una sua «qualità», determinante per il consenso. Al riguardo, la Corte di Cassazione, con una sentenza ormai risalente (ma non contraddetta da altre difformi: almeno, così mi risulta), ha statuito il principio che «in tema di vendita di opere d’arte, l’errore di uno o di entrambi i contraenti sull’autenticità dell’opera negoziata e sulla effettiva identità del relativo autore può dar luogo, ai sensi dell’art. 1428 c.c., alla caducazione del contratto, perché comporta che questo debba intendersi concluso per effetto di una falsa rappresentazione dell’identità e delle qualità essenziali del relativo oggetto, avuta da una o da entrambe le parti al momento della stipulazione dell’accordo» (Cass., II, 2.2.1998 n. 985). Questa è la massima: ma per comprendere quanto il problema risulti delicato, basta ricordare che la Corte, affermando il suddetto principio, ha annullato una pronunzia di segno inverso della Corte d’Appello di Roma, quest’ultima confermativa di una sentenza del Tribunale di Roma. Dunque, non si può dire che il caso si risolva prima facie, anche perché siamo al limite tra aspetti qualitativi e aspetti identitari del bene culturale. E si badi bene: l’azione di annullamento si prescrive, come recita l’art. 1442 c.c., in cinque anni, ma questi decorrono non dalla data di conclusione del contratto bensì «dal giorno in cui... è stato scoperto l’errore»: quindi, tornando al caso proposto dal mio ignoto lettore, il venditore, presa lettura della pubblicazione ove sia messa in risalto l’altissima identità culturale di oggetti negoziati come chincaglieria, potrebbe intentare, nei successivi cinque anni, un giudizio di annullamento del contratto nei confronti del (fortunato?) acquirente.

Certo, questo art. 1442 sembra contraddire un principio fondamentale dell’ordinamento giuridico: ogni situazione, con il decorso di un ragionevole lasso di tempo, si consolida definitivamente in favore del possessore. Nel caso di specie, viceversa, decorrendo l’azione dalla scoperta dell’errore, essa è praticamente imprescrittibile. Potrei portare un esempio: padre Sebastiano Resta, noto «marchand-amateur» del secolo XVII, vendette, con tanto di perizie, a un acquirente a noi sconosciuto, un dipinto di Lelio Orsi da Novellara, contrabbandato come Correggio. L’errore sull’identità era macroscopico, come nel caso deciso dalla Cassazione: un’opera attribuita al «Maestro della Cappella Pellegrini» (nome catalogico di uno scultore non meglio identificato del XV secolo) era poi risultata nientemeno che di Jacopo della Quercia, forse il più grande scultore del Quattrocento italiano. Il rapporto tra Lelio Orsi e Antonio Allegri detto «Correggio», grosso modo, corrisponde al caso deciso dalla Corte Suprema. Ora, se esistessero degli eredi di padre Resta e degli eredi dell’anonimo acquirente dell’opera di cui sopra che avessero letto il bellissimo saggio di Federico Zeri, ove si dimostra, in termini di certezza, l’ascrivibilità del dipinto venduto come Correggio a Lelio Orsi (il saggio è in Diari di lavoro 2, Einaudi, 1976), potrebbe seguire, a distanza di quasi quattro secoli, un’azione di annullamento del contratto: anche perché l’art. 1429 c.c. esprime un principio «di diritto comune», applicabile, fin dalla Codificazione Giustinianea (554 d.C., data della cosiddetta «Pragmatica Sanctio pro petitione Vigili») nello Stato Pontificio. È vero: Umberto Breccia, illustre civilista, ha proposto un rimedio a queste assurdità temporali, circoscrivendo i tempi dell’azione restitutoria rispetto all’azione di annullamento. Ma è un’opinione isolata, che non ha avuto riscontri in giurisprudenza Dunque, ammonisco il mio anonimo lettore: non dia risalto alla sua trouvaille!

Fabrizio Lemme, 08 novembre 2016 | © Riproduzione riservata

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