Un particolare di «Sans titre (Matri Dei d.d.d)» (1965) di Luigi Pericle © Archivio Luigi Pericle / Foto Marco Beck Pecoz

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Un particolare di «Sans titre (Matri Dei d.d.d)» (1965) di Luigi Pericle © Archivio Luigi Pericle / Foto Marco Beck Pecoz

La sublime arte dello scarabocchio

Una mostra in compagnia di Stefano Salis: «Una mostra bellissima e memorabile, molto più importante di quanto essa stessa non sembri credere»

Dico al mio amico scettico che vado a Roma a vedere una mostra intitolata «Scarabocchio». «Cosa pensi di trovarci?» mi chiede. «È l’ennesima “fuffa” d’artista, i soliti che non sanno dipingere e lasciano sgocciolare i colori sulla tela, segni senza senso». Lo so, è il cinismo che lo porta a dire queste e altre turpitudini, su tutte una: «Lo facevo anche io», o «lo farebbe anche un bambino di 4 anni». So che lo fa per provocarmi, tanto non riesce a starmi antipatico. E, poi, so che ha (avrà) torto...ma non fino a questo punto.

Sono uscito dalla mostra dubbioso e frastornato. Non per la bellezza delle opere esposte: non è certo questo lo scopo primo di una tale esposizione, e poi la bellezza non è certo un criterio dirimente in questo caso, o sufficiente. Sono uscito frastornato, dalla mostra «Scarabocchio | Gribouillage», a Villa Medici a Roma (fino al 22 maggio e poi al Beaux Arts di Parigi, in una esposizione parallela ma non gemella, dal 19 ottobre al 15 gennaio 2023) perché la sfilata delle circa 300 opere presenti, disposte in sette ambienti, compresa una suggestiva scalinata, dalle curatrici Francesca Alberti (Villa Medici) e Diane Bodart (Columbia University), con la collaborazione di Philippe-Alain Michaud, in qualità di curatore associato (Centre Pompidou), non lascia scampo a un interrogativo che sorge abbastanza spontaneo, tormenta e non ammette facili risposte, e cioè: che cosa abbiamo visto? Che cosa siamo andati a guardare? Di «che cosa parla» questa mostra? Che cosa espone? E perché?

La mostra di Villa Medici, a scanso di equivoci, bellissima e memorabile, molto più importante di quanto essa stessa non sembri credere, oscilla intorno a una nuvola di concetti che si rapprende attorno al «concetto massimo» del disegno. Mostra grafismi puri, scarabocchi, linee e segni autogeneranti, schizzi, caricature, bambinate, parossismi, parodie, proteste, esoterismi, ripensamenti, migliorie, produzioni destinate a stare nascoste (magari nel retro di una tela sontuosa). Si trovano linee ingarbugliate, ghirigori voluti e cercati, altri invece emersi casualmente, pratiche gestuali semplicissime quanto psichicamente complesse, segni di segni, disegni di segni, segni di disegni, in un vortice di «mise en abyme» che rischia di dare i brividi.

La parola «scarabocchio», in italiano, come in altre lingue, pone già, nella pronuncia, nella grafia, una serie di interrogativi grafici. È, insomma, essa stessa «scarabocchio». Il susseguirsi di quelle lettere, srotolate nella dizione, fa chiaramente capire che è una parola figurale, che serve a darci immediato riscontro della nostra impossibilità di sintetizzare, di essere precisi, ma anche di giudicare, del nostro trovarci in mezzo a un garbuglio teorico e pratico, e anche della non saggia scelta di buttare via, di scartare.

Insomma, persino uno sghiribizzo grafico può costituire un inaspettato capolavoro. Ma non solo, perché il disegno, la pratica del disegno, ci pone di fronte alla sua eventuale compiutezza, all’interrogativo di quando esso sia finalmente terminato e non in uno stato primordiale, intermedio o avanzato. Per questo motivo lo scarabocchio (usiamo questo termine raggruppativo) compie un felice percorso a ritroso nella storia dell’arte. Espunto ed emarginato dall’opera, nei secoli sempre collocato al di fuori dello statuto artistico, pian piano riconquista faticosamente, e alla lettera, il centro della cornice: trionfa, nel Novecento, con Dubuffet, con Picasso, con Twombly (più tardi con Basquiat), creatore di scarabocchi d’autore immediatamente riconoscibili.

Tutto ciò premesso, è il caso di avventurarsi con fiducia ed entusiasmo in questa mostra di piccole, continue, e inaspettate, meraviglie che, prese una per una, comunicano sempre un mondo, o situazioni singole, da guardare con estrema attenzione. In questi 300 originali, dal Rinascimento al contemporaneo, vengono fuori tutti gli aspetti più sconosciuti e meno controllati della pratica del disegno e del pre-disegno (ammesso che questo significhi qualcosa).

Dagli schizzi imbrattati sul retro dei dipinti ai pastrocchi che diventano vera e propria opera, l’esposizione mostra come queste pratiche grafiche sperimentali, trasgressive, regressive e liberatorie, che sembrano non obbedire a nessuna regola, hanno da sempre scandito, accompagnato e acquisito via via una posizione nella storia della creazione artistica: forme grafiche libere, istintive e gestuali, come le divagazioni calligrafiche ai margini dei manoscritti o i graffiti di mani anonime che ricoprono i muri delle città (tanto che i tag, le firme degli artisti, ricorrenza ossessiva dei writers metropolitani, sono, per statuto, scarabocchi…), opere che evocano i disegni rudimentali dei bambini (un leitmotiv ricorrente).

Non va dimenticato che Picasso, presente in mostra con una caricatura, parlando dei bambini, affermava: «Mi ci è voluta una vita intera per disegnare come loro». Già Michelangelo si divertiva a imitare i personaggi disegnati maldestramente sulle facciate fiorentine. E perciò, in carrellata, da Leonardo a Pontormo, da Tiziano a Picasso, e poi Dubuffet, Henri Michaux, Helen Levitt, Asger Jorn fino a un outsider di grande rilievo come Luigi Pericle, la mostra rimette in questione ordini cronologici, categorie tradizionali (margine e centro, ufficiale e non ufficiale, classico e contemporaneo, opera e documento) e le nostre presunte certezze. Un nucleo di opere comuni lega le due sedi espositive: le porzioni di pareti staccate della bottega di Mino da Fiesole o dell’atelier di Giacometti; le fotografie di Brassaï e di Helen Levitt così come le varie opere emblematiche di Cy Twombly, di Asger Jorn, del gruppo Cobra, di Luigi Pericle e di altri maestri della modernità come Giacomo Balla.

Poiché questa è una mostra da visitare più volte, inconsueta e per molti versi «fondativa», non resta che raccomandarne una fruizione il più ampia e casuale possibile, contando anche sull’esistenza del catalogo oltre l’effimera esistenza dell’esposizione. Forse la lezione più interessante che si trae da questo percorso è che parlando di scarabocchi, lo diventa, in senso (molto) positivo, esso stesso: ci tormenta con la sua imprendibile essenza. Questi scarabocchi, di qualsiasi forma, materia, essenza siano fatti ci dicono che è l’arte, dopo tutto, a essere inafferrabile, irraccontabile, inesauribile. Non poco per uno scarabocchio, fatto ad arte o meno che sia. E con buona pace degli scettici.

Un particolare di «Sans titre (Matri Dei d.d.d)» (1965) di Luigi Pericle © Archivio Luigi Pericle / Foto Marco Beck Pecoz

Il retro della tavola con San Ludovico del «Trittico della Madonna» di Giovanni Bellini © G.A.VE Archivio Fotogradico, foto Matteo De Fina

Stefano Salis, 11 aprile 2022 | © Riproduzione riservata

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