Roberto Cicutto

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Roberto Cicutto

La sfida di Roberto Cicutto

Torna nella sua città da presidente della Biennale, dopo l'esperienza a Roma come produttore e presidente dell’Istituto Luce e di Cinecittà

Enrico Tantucci

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Da Venezia a Venezia. Roberto Cicutto è tornato a casa. L’ha lasciata a diciott’anni, per «fare il cinema» a Roma. E l’ha ritrovata ora, a settantadue, impeccabilmente portati dietro un sorriso ironico e sicuro di sé a fargli da scudo. Diventato da pochi mesi presidente della Biennale, al termine di un lungo cursus honorum nel campo della produzione cinematografia prima e del suo «governo» poi come presidente di Cinecittà-Luce, Cicutto arriva alla Biennale nel momento più difficile.

Con l’eredità comunque pesante lasciata dalla lunga presidenza di Paolo Baratta che l’ha rilanciata a livello internazionale e ne ha fatto un modello gestionale («funziona come un orologio svizzero», dice lo stesso neopresidente). Ma soprattutto con i problemi enormi creati dall’emergenza Coronavirus anche alla maggiore istituzione culturale italiana del contemporaneo. Fatta slittare a fine agosto e poi definitivamente rinviata al prossimo anno la Mostra Internazionale di Architettura, per il «forfait» annunciato di molti dei maggiori Paesi partecipanti.

«Salvata in corner» la Mostra del Cinema che si fa, ma con tutte le incognite legate alla partecipazione necessariamente ridotta del grande cinema americano e delle sue star di casa al Lido, e con le regole su tutela sanitaria e distanziamento che la dimezzeranno di fatto anche sul piano della presenza del pubblico. Ma il sorriso di Cicutto «bypassa» le difficoltà e anticipa anzi un ambizioso rilancio della Biennale, stretta attorno all’Asac, l’Archivio Storico delle arti Contemporanee.

Trasformato, in una nuova sede all’Arsenale, da memoria documentale dell’istituzione a una sorta di «pensatoio» permanente e laboratoriale sul nuovo ruolo della cultura e delle arti e, insieme, anche in un possibile motore di rilancio di una città come Venezia. Che, l’abbiamo definitivamente scoperto proprio con l’emergenza Coronavirus che l’ha desertificata per mesi, non può vivere solo di turismo e di turisti per andare avanti.

La maturità a diciott’anni a Venezia, al liceo classico Marco Polo, e poi la decisione di partire per Roma, per iscriversi all’Università. Perché?
Perché a Venezia non c’era un lavoro che avrei potuto fare. Non mi sentivo portato per iniziare a lavorare nell’azienda di materiali refrattari che mio padre aveva a Marghera. E non mi interessava lavorare nel turismo, anche se mi ero divertito a inventare un gioco basato sulla Sai, Società Alberghi Italiani, immaginata da me. Guida del Touring alla mano, mi divertivo a inventare prenotazioni e itinerari alberghieri. Ma era appunto un gioco, che appagava più che altro il mio interesse per gli aspetti organizzativi che ho sempre avuto.

Com’era quella Venezia?
Molto più fatiscente di quella attuale, ho ritrovato una città dove i lavori di restauro sono incessanti. Sono stati i mesi del lockdown, qui a Venezia, che mi hanno riportato un po’ indietro nel tempo, a quell’immagine di città.

Come prese la sua famiglia la «fuga» a Roma?
Non bene. Non capiva soprattutto perché volessi andare proprio a Roma e io risposi: «Per fare il cinema». Normalmente chi ha questa idea in mente pensa agli aspetti artistici, a fare l’attore o il regista. A me invece interessavano appunto gli aspetti organizzativi del fare cinema, sin dall’inizio.

Quale fu il suo impatto con la città?
Subito stimolante. M’iscrissi a Lettere e Filosofia alla Sapienza, era il ’68 ed entrai anche a far parte del movimento studentesco. Era molto facile allora in quell’ambiente entrare in contatto con personalità impegnate del cinema italiano come Gian Maria Volonté, Franco Cristaldi, Marco Bellocchio, Silvano Agosti. Si andava al mare a Fregene e ci si frequentava, ci si scambiava delle idee. Cominciai ad avvicinarmi anche all’Istituto Luce, di cui poi sarei diventato presidente. Ho capito allora che forse sarei potuto diventare un produttore cinematografico, anche se i problemi non mancavano, a cominciare da quelli dei soldi, e che era un lavoro affine alle mie possibilità. Fu allora che acquistai i diritti per la versione cinematografica di La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth e per quattordici anni, con molti sforzi, ho continuato a pagare le royalty in attesa di riuscire a realizzare un film da quel romanzo in cui credevo moltissimo. Ma non riuscivo a trovare un regista adatto, fino a che Tullio Kezich, che poi curò con lui la sceneggiatura, non mi consigliò di proporlo a Ermanno Olmi. Mi sembrava impossibile che a un cattolico come Olmi potesse interessare un film su un libro intriso di cultura ebraica, e invece accettò subito, rispettandone pienamente lo spirito. Avevo tra l’altro da poco prodotto il mio primo film, «La ballata di Eva» di Francesco Longo.

E qui torna il legame con Venezia, visto che «La leggenda del santo bevitore», prodotto dalla sua prima casa di produzione cinematografica, l’Aura Film, vinse a sorpresa il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema del 1989.
Ricordo che Biagio Agnes, allora direttore generale della Rai, poiché Olmi non era disposto a venire a Venezia, voleva ritirare il premio, visto che Rai Cinema aveva partecipato economicamente alla produzione, sostenendo che il Leone era un successo dell’azienda. Io dissi: «Lasciamo decidere a Olmi chi deve ritirarlo». E lui spiazzò tutti, inviando a riceverlo un’allieva della sua Scuola di Cinema

Nacque però un grande rapporto con Olmi.
Sì, di amicizia e di stima, che ha fatto sì che producessi poi anche i suoi film successivi.

C’è stata per lei in quegli anni iniziali di carriera una figura di riferimento, un modello a cui ispirarsi?
Sì, Franco Cristaldi. Un grande produttore cinematografico che riuniva le due qualità a me più vicine: la capacità imprenditoriale e l’impegno nel voler produrre comunque film di qualità.

Una lunga carriera di successi, per lei nel cinema. Fin dalla creazione nel 1984 della società di distribuzione Mikado Film, che ha di fatto imposto autori europei (e non) di grande livello quali Jane Campion, Krysztof Kieslowski, Derek Jarman, Edgar Reitz, Sofia Coppola. E poi, con Nanni Moretti, Luigi Musini e Angelo Barbagallo, la creazione della Sacher Distribuzione che ha fra i suoi titoli la Palma d’Oro 2001 «La stanza del figlio» a Cannes. Quindi le «avventure» successive con la società di produzione Cinema 11, ancora a fianco di Olmi, e poi con la società On My Own con cui ha prodotto il film di Spike Lee «Miracolo a Sant’Anna». E poi basta. Perché?
Perché non mi divertivo più come prima a produrre film, veniva meno la complicità con i registi, il rapporto diretto con loro. L’ingresso di soggetti finanziatori pur indispensabili come Rai Cinema e Medusa ha un po’ spersonalizzato il ruolo di produttore, lo ha reso più distante. Con Jane Campion, Derek Jarman, Krysztof Kieslowski, Sofia Coppola tra gli altri, avevo un rapporto diretto, erano amici oltre che compagni di lavoro. Dopo non è stato più possibile.

Ed è passato dall’altra parte della barricata, alla guida dell’Istituto Luce e di Cinecittà, nel 2009.
Il Luce viveva un momento di grande difficoltà. Fu Gaetano Blandini, che allora era amministratore unico di Cinecittà Holding Spa, a propormi il nuovo incarico, fondendo l’Istituto Luce con Cinecittà. Accettai, ed è andata bene, sono stati undici anni molto belli. Con la creazione, tra l’altro, del nuovo Museo Italiano dell’Audiovisivo e del Cinema negli ex laboratori di sviluppo e stampa di Cinecittà. Siamo cresciuti, passando da 75 a 300 dipendenti e solo il Covid ha frenato i nuovi accordi in corso con «colossi» come Amazon e Netflix.

È comprensibile che abbia lasciato la presidenza di Cinecittà-Luce un po’ a malincuore. Ma poi è arrivata l’offerta del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini per la presidenza della Biennale. Un’offerta che non si poteva evidentemente rifiutare…
È stato uno choc, non me l’aspettavo minimamente, ma non si può dire no alla Biennale, bisogna essere pazzi. Il dispiacere più che per me era per il lavoro interrotto prima di concluderlo, ma Cinecittà-Luce è in buone mani. La proposta è arrivata a fine gennaio, ma solo all’inizio di marzo ho capito che sarebbe diventata realtà e ho accettato, anche se arrivare alla Biennale dopo Paolo Baratta è un bell’impegno.

Un impegno completamente diverso dai precedenti per lei.
Fino a un certo punto, perché curare una grande mostra non è poi così diverso dal produrre un film. È comunque un lavoro organizzativo, realizzato in gruppo, che parte da un’idea e dalla sua successiva realizzazione e gli allestimenti ricordano le scenografie. Il processo è molto simile, per produrre qualcosa di solo apparentemente effimero e legato al momento della sua fruizione. Inoltre ho trovato alla Biennale grande professionalità, Baratta mi ha lasciato una fondazione che funziona come un orologio svizzero.

C’è stata però, anche per la Biennale, la grande emergenza del Coronavirus che ha un po’ sconvolto i programmi. Mostra Internazionale di Architettura prima fatta slittare a fine agosto e poi definitivamente rinviata al prossimo anno. Mostra del Cinema che si fa, ma con molte incognite. Come vive questa situazione?
Come una sfida, quella rappresentata dal Covid che dobbiamo comunque affrontare e proprio la Mostra del Cinema sarà un banco di prova anche per altre manifestazioni simili, perché è la prima a ripartire. Per quanto riguarda la Mostra di Architettura, abbiamo provato in tutti i modi a mantenerla, facendola slittare al 29 agosto e sperando che l’emergenza Coronavirus per allora si fosse allontanata. Ma quando abbiamo fatto con il direttore della Mostra Hashim Sarkis la riunione annuale con i commissari degli 86 Paesi partecipanti, ci siamo resi conto che non c’erano le condizioni per organizzarla, molti non avrebbero potuto venire, e l’abbiamo rinviata al 2021. È stato comunque emozionante ascoltare oltre 200 rappresentanti dei Paesi riuniti in videoconferenza e capire quanta attenzione e considerazione c’è nel mondo nei confronti della Biennale.

Per la Mostra del Cinema invece ce l’avete fatta.
È stata molto importante l’iniziativa del direttore Alberto Barbera di tastare il polso al mondo del cinema qualche mese fa per capire se per loro c’erano le condizioni per organizzare comunque la Mostra del Cinema al Lido e se avrebbero partecipato e la risposta è stata convinta e entusiasta. Questo ci ha convinto ad andare avanti e grazie anche alle sale aggiuntive all’aperto che abbiamo allestito contiamo comunque di avere almeno il 50 per cento delle presenze dello scorso anno, mantenendo di fatto tutto il programma. Non abbiamo voluto trasferire nulla sul digitale, tranne la sezione dedicata alla realtà virtuale, perché la Mostra vive se ha una partecipazione attiva e una presenza fisica, non può essere sostituita dall’online, che pure può essere utile ad esempio per incontri stampa con chi non può essere fisicamente presente in questa occasione.

L’emergenza Coronavirus deve essere stata pesante per la Biennale, in questi anni impeccabile nei conti, anche sotto il profilo economico, per i mancati introiti delle manifestazioni «saltate» o ridotte. Com’è la vostra situazione finanziaria ora?
Problematica, ma non drammatica. Ci sono i mancati introiti della Mostra di Architettura, anche se con risparmi di spesa per lo slittamento della manifestazione al 2021. E i maggiori costi della Mostra del Cinema, per circa 2 milioni di euro, per tutte le misure e i provvedimenti organizzativi che si sono aggiunti per l’emergenza Coronavirus. Il bilancio del 2020, nella logica biennale della fondazione che registra sempre un forte attivo nell’anno delle Arti Visive e un passivo controllato in quello successivo di Architettura, già prevedeva uno sbilancio di circa 3 milioni di euro, ampiamente coperto dalle riserve. Diciamo che abbiamo maggiori costi per circa 4 milioni di euro e, come altre istituzioni culturali, abbiamo già presentato al Ministero un rendiconto per ottenere poi parte dei fondi che il Governo ha previsto proprio per compensare i minori introiti dovuti alla situazione innescata dal Covid-19.

Biennale e Venezia, un rapporto antico ma non sempre semplice. Secondo lei la Biennale è un’istituzione culturale nazionale e internazionale «calata» su Venezia o un organismo che deve vivere anche in simbiosi con la città?
La Biennale è il mondo, la sua vocazione è internazionale e il fatto che sia a Venezia rappresenta un valore aggiunto. Ma questo non significa che essa non sia anche parte integrante della città e debba pertanto fare sì che Venezia non sia solo una metà turistica, ma anche una città vitale in grado di attrarre nuova residenza e nuove funzioni. Per questo penso a una Biennale che continui a organizzare le sue grandi manifestazioni ma che funzioni anche 365 giorni all’anno con tutti i suoi settori, intorno all’Asac, l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee, che deve diventare qualcosa di più e di diverso della sola «memoria» cartacea e digitale dell’istituzione, nella nuova sede che lo ospiterà all’Arsenale e che presto inizieremo a ristrutturare. Penso alla Biennale e all’Asac come un laboratorio permanente di ricerca delle arti contemporanee, un motore indispensabile di indagine sul presente e sul futuro e uno strumento strategico di sviluppo anche economico non solo per la fondazione che ora guido ma per la stessa Venezia. La mostra «Le muse inquiete. La Biennale di fronte alla storia», aperta a fine agosto nel Padiglione Centrale dei Giardini e realizzata dall’Asac (cfr. lo scorso numero, p. 2), è un primo esempio in questa direzione. La mostra è infatti curata per la prima volta da tutti i direttori dei sei settori artistici della Biennale (Arti Visive, Cinema, Danza, Musica, Teatro e Architettura) per ripercorrere attraverso le fonti dell’Archivio della Biennale, ma anche di altri archivi nazionali e internazionali, quei momenti in cui la Biennale e la storia del Novecento si sono intrecciate: dagli anni del Fascismo alla globalizzazione.

Mi spieghi come funzionerà e soprattutto di che cosa si occuperà questo nuovo Asac laboratorio permanente del contemporaneo, che richiama alla mente le «mitiche» attività della Biennale che il suo statuto aveva previsto come permanenti ma che in realtà sono state al massimo periodiche.
Sarà un polo di ricerca a cui chiamerò a collaborare anche direttori di settore che sono già stati alla Biennale, oltre agli attuali e personalità della cultura e dei più diversi campi. Sono loro che ci dovranno proporre idee e suggestioni proiettate soprattutto sul futuro delle arti, sulla loro interazione con la vita quotidiana delle persone e anche sull’uso del digitale per contribuire a diffonderle e raggiungere così il nostro pubblico anche a distanza. È un progetto ambizioso lo so, ma abbiamo il dovere almeno di provarci.

Ci sarà spazio anche per Venezia in questa attività laboratoriale dell’Asac?
Assolutamente sì. Vogliamo occuparci anche di temi come l’ospitalità alberghiera, gli affitti agevolati per giovani coppie e studenti, il ripopolamento della città storica e la costruzioni di nuovi alloggi a costi contenuti, i progetti di insediamento di nuove attività a Venezia che non siano necessariamente legate al turismo. Cerchiamo nuove idee sulla città, ma anche progetti e modalità per la loro realizzazione. Vogliamo partire già in autunno, passate le elezioni amministrative, per evitare ogni tipo di strumentalizzazione politica, senza perdere tempo.

Roberto Cicutto

Enrico Tantucci, 07 settembre 2020 | © Riproduzione riservata

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