La scomparsa improvvisa di Franco Monetti

In più di 40 anni ha contribuito con una mole di scritti alla conoscenza della grande arte piemontese ed europea transitata dal Piemonte

Franco Monetti
Marco Riccòmini, Stefano Causa |

All’anagrafe era Francesco, ma tutti lo conoscevano come Franco. Era quello il nome con cui firmava da più di quarant’anni (la mole) di articoli e volumi scritti a quattro mani assieme ad Arabella Cifani, compagna di vita e compagna di studi da una vita. La nostra conoscenza della storia delle collezioni e delle committenze piemontesi non sarebbe la stessa se non fosse stato per le sue ricerche, ma dovrei dire meglio «loro ricerche», condotte con quella peculiare acribia nel computo delle fonti e degli archivi.

Dopotutto, agli studi umanistici (ossia alle lauree in Lettere con indirizzo storico, in Teologia presso la Pontificia Università Lateranense di Roma e in Scienza delle Comunicazioni Sociali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) Franco, per non farsi mancar nulla, aveva aggiunto anche il diploma della Scuola di Stato di Paleografia, Diplomatica ed Archivistica conseguito presso l’Archivio di Stato di Torino. E, siccome Torino è stata anche capitale d’un regno d’inarrivabile splendore, i suoi lavori non si sono limitati agli artisti che si definirebbero «locali», come, per intenderci, l’architetto Guarino Guarini, il pittore Stefano Maria Legnani detto il Legnanino, il «pergamenista» Ottaviano Monfort, il mosaicista Giovanni Battista Calandra o l’ebanista Pietro Piffetti. Ma anzi, i suoi studi hanno abbracciato anche pittori di grido europeo le cui strade o le strade delle cui opere sono passate per Torino ed il Piemonte (tipo Guido Reni o il Guercino). Un lavoro immenso di ricerca e di inestimabile valore condotto con garbo, riserbo e modestia, com’era nelle sue corde; del cui dolce pizzicato sentiremo la mancanza.
Marco Riccòmini

L’ultimo contributo è su Battistello Caracciolo

Ora che ci ha lasciati, dopo un male veloce e senza sconti, gli studiosi e appassionati che hanno confidato nelle maglie larghissime della sua erudizione racconteranno meglio di me chi è stato Franco Monetti e che cosa abbia comportato il suo lavoro non solo per l’arte e la civiltà piemontesi. Se il rigore scientifico impatta da mille saggi come una seconda natura, vi si rivelano, a saperli cogliere, soprassalti di umanità e tenerezza (la bontà è la più alta forma di intelligenza).

Io ho avuto il privilegio di raccogliere quello che è il suo ultimo contributo. Nel catalogo della mostra su Battistello Caracciolo, che ho curato con Patrizia Piscitelli e che aprirà nel Museo di Capodimonte il prossimo 9 giugno, Franco firma, a quattro mani con Arabella Cifani, un saggio che prova ad abbracciare l’impressionante cultura teologale del pittore. Nessuno lo aveva fatto prima e, se saremo bravi ad allargare questa finestra, se ne gioveranno nientemeno che tutti gli studi sulla cultura napoletana del ’6oo. In un modo o nell’altro, i vicoli di Napoli vanno tutti a finire a Torino. Franco Monetti lo sapeva bene.
Ma si capisce. Napoli e la pittura napoletana sono state inventate da un piemontese, Roberto Longhi. Oltre un secolo fa questo scrittore storico d’arte promosse Battistello a principe dei caravaggeschi. Per tutta la vita lo tenne d’occhio servendosi della lettura dello stile come formidabile sonda esplorativa. E tutti noi a seguirlo come i gabbiani la scia dell’aliscafo. Non Franco. Che sapeva come l’impressionismo critico, per avvicinarsi ai temi sacri dopo la Controriforma, non sia ormai più bastevole. E se questa prima esposizione monografica sul Caracciolo avrà una spinta in più lo dobbiamo anche a lui che ci ha mostrato come per salire più in alto su un pendio roccioso, si debbano imboccare strade alternative; e più ripide. E a Franco piaceva arrampicarsi.
Stefano Causa

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