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La costellazione Tate

Jane Morris

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Il 17 giugno, con l’apertura dell’ampliamento della sede a Bankside, il museo estende la sua offerta con la tecnoarte e rivoluziona l’allestimento. È il culmine del «regno Serota», il superdirettore della «costellazione Tate» che, tuttavia, non sembra pensare alla pensione

Nicholas Serota. Foto: Hugo Glendinning, 2016

Quali sono i tre più importanti musei di arte moderna e contemporanea al mondo? Il Centre Pompidou di Parigi, la città che ha definito l’arte fino alla seconda guerra mondiale, il MoMA di New York, che ne ha preso il testimone nel periodo postbellico, e la Tate Modern di Londra, che forse non ha mai definito l’arte ma sta per fare a pezzi la classica narrativa del canone modernista del bello elaborato da Parigi e New York. Il 17 giugno l’apertura al pubblico della Switch House, l’ampliamento su dieci piani da 260 milioni di sterline (circa 336,5 milioni di euro) progettato da Herzog & De Meuron, propone una Tate Modern completamente rinnovata, con un nuovo allestimento nei due edifici.

Nel 1999, il direttore della Tate Nicholas Serota dichiarò che la sfida del museo sarebbe stata quella di collezionare una gamma diversa di opere d’arte. Da allora la Tate ha regolarmente mantenuto fede alle promesse: più opere di donne, di artisti neri e asiatici, latinoamericani, russi, cinesi e africani. E ora, con l’apertura dell’ampliamento della Tate Modern, Serota avrà un museo in grado di accogliere degnamente queste opere. Nel 1988, con un testo su un foglio A4 intitolato «Grasping the Nettle» («Prendere il toro per le corna»), fece domanda per il posto di direttore di quella che molti allora chiamavano la «vecchia» Tate a Millbank, l’edificio porticato del 1897 che è ora la Tate Britain. Tra le cose da affrontare c’era, a suo avviso, l’esigenza di un museo completamente nuovo dedicato all’arte moderna e contemporanea, che meritasse il rispetto e non solo l’affetto degli artisti viventi.

Quello che i trustee non sapevano era che già allora Serota era consapevole che tutti i nuovi musei un giorno si sarebbero ingranditi. «Nel 1988 avevo la forte convinzione che a Londra servisse un museo di arte moderna, ricorda Serota. La Tate voleva liquidare queste responsabilità verso l’arte inglese e quella internazionale moderna in un edificio troppo piccolo». C’era già un progetto per costruire una serie di padiglioni a Millbank, «ma abbiamo fatto un’analisi e abbiamo capito subito che non ci sarebbe stato spazio sufficiente per rendere giustizia a una collezione internazionale moderna e a quella di arte inglese». Il fatto che parli al plurale è significativo. Serota lo sapeva già: serviva tempo per tutti, apparentemente ognuno secondo un percorso diverso, per arrivare alla stessa conclusione.

Una veduta esterna della Switch House. © Hayes Davidson and Herzog & de Meuron

Nel 1992 i trustee erano convinti e otto anni dopo partì il progetto da 134 milioni di sterline che avrebbe trasformato la Bankside Power Station del 1947-63 di Giles Gilbert Scott, ormai in disuso, nella Tate Modern. Anche allora Serota fu attento a presentare il sito (furono presi in considerazione anche il parcheggio Hungerford di Waterloo e siti in King’s Cross, Vauxhall e nei Docklands) sotto la miglior luce possibile. Per evitare il rischio che i trustee avessero dubbi sulla vasta e desolata distesa semi industriale di Bankside, nel 2012 Serota dichiarò al «New Yorker» di aver fatto in modo che i trustee vedessero per la prima volta la centrale elettrica dalla riva nord e da St Paul’s Cathedral, il lato migliore. «Uno dei grandi vantaggi di Bankside era che sembrava ci fosse spazio per sviluppi futuri, spiega Serota.

La maggior parte dei musei di arte moderna crescono perché hanno esigenza di acquistare ed esporre nuove opere». L’idea era quella di un’espansione intorno al 2025, anticipata dalla sorprendente realtà di 5 milioni di visitatori in un edificio concepito per 2. Anche Londra cresceva: investimenti sullo sviluppo edilizio e una nuova stazione della metropolitana hanno contribuito a rinnovare Bankside e progetti edilizi multimilionari hanno iniziato a circondare la ex centrale elettrica (facendo trasferire gli studi degli artisti che si trovavano nelle vicinanze). «Tutto il fermento intorno a noi, partito come conseguenza della nostra presenza, ci fece capire che avremmo presto potuto trovarci circondati da vicini che avrebbero avuto da obiettare alla nostra espansione». Secondo Serota restava poco tempo e molti da convincere: trustee, donatori e il Governo che chiedevano il perché di tutta questa fretta; lo staff, che puntava l’attenzione sulla collezione, sul rafforzamento della Tate Britain. Nel frattempo, anche l’arte stava cambiando. Il lento flusso di artisti che negli anni Novanta realizzavano installazioni, performance, fotografie, film e video e persino qualche opera digitale, alla metà dei 2000 era cresciuto esponenzialmente. «Arrivammo in fretta al punto di voler esporre diversi tipi di arte, volevamo proporre la fotografia e avevamo ancora più responsabilità rispetto a prima del 2000», dichiara Serota.

Frances Morris, direttrice della Tate Modern. Foto Hugo Glendinning

Con Frances Morris, l’attuale direttrice della Tate Modern, i comitati di acquisizione e la collezione sono cresciuti in parallelo. Si tratta di un grande passo avanti rispetto agli anni Novanta, quando la Tate perse opere importanti come «Ghost», il calco in gesso dell’interno di un salotto vittoriano, elegiaca opera di Rachel Whiteread, a favore di collezionisti che si muovevano più velocemente come Charles Saatchi (l’opera è ora alla National Gallery of Art di Washington). Tra i cambiamenti che i visitatori potranno osservare questo mese ci sono «le acquisizioni di time-based media  (opere video, sonore, film, software o basate su altre forme di tecnologia, Ndr) e installazioni dalla fine degli anni Sessanta-primi anni Settanta ai giorni nostri», ricorda Serota, citando il lavoro di Nam June Paik come esempio di queste storiche acquisizioni. «Esponiamo anche molte più opere di donne, fotografie e lavori provenienti da aree diverse del mondo. Sono grossi cambiamenti se paragonati alla Tate Modern del 2000».

Serota ammette che il nuovo museo non piacerà a tutti: «Abbiamo comprato molta arte che non ha un vero e proprio spazio sulla scena internazionale. Stavo giusto cercando di spiegarlo a un gruppo di collezionisti americani in visita alla Tate Modern, che a giugno avrebbero visto molta arte per loro insolita. Qualcuno dirà: “So che avete un bel gruppo di opere di Ellsworth Kelly perché erano esposte l’anno scorso. Perché ora avete messo Sheela Gowda? Kelly è un artista molto più importante”». Serota spiega di essere andato a trovare l’influente modernista americano poco prima della sua scomparsa, lo scorso dicembre, e di «amare appassionatamente» il suo lavoro (una mostra di Kelly aprirà alla Tate Liverpool l’anno prossimo). «Ma alcuni grandi artisti americani sono finiti in magazzino, così come alcuni grandi inglesi e internazionali. L’allestimento che vedrete quando apriremo non deve necessariamente rappresentare il meglio della collezione  della Tate. È l’interpretazione di una collezione nel 2016, una collezione che continuerà a crescere, e che continueremo a riesaminare e ripensare».

Un altro grande cambiamento è la nomina del primo direttore donna del museo. Frances Morris lavora alla Tate dal 1988 e Serota afferma che è stata scelta perché era il candidato migliore: «Si occupa della collezione internazionale e dei comitati di acquisizione dal 2000, ha una profonda conoscenza della collezione ed è molto brava a organizzare mostre. La Tate è ormai cresciuta al punto da avere sufficiente fiducia nella propria voce, senza sentire più il bisogno di chiamare qualcuno dall’estero perché ci insegni le cose». Ora ci si aspetta che, una volta completato il fundraising (restano 30 milioni di sterline, poco meno di 40 milioni di euro, difficili da trovare) Serota inizierà a pensare al suo futuro. Quando gli chiediamo se rimarrà alla Tate diventa evasivo: «Ascolto sempre con grande attenzione quello che dice Frances», dice ridendo. Ma poi si intenerisce: «Ho una responsabilità verso questo progetto, andremo all’apertura e vedremo che cosa succede dopo. Devo trovare il denaro per completare l’ampliamento e devo mantenere il contatto con il Governo, le fondazioni, i trust e i soggetti privati perché continuino a finanziarci. E ho anche molta esperienza che devo condividere con i miei direttori».

È facile ridurre Serota a politico e fundraiser ma, come ammette egli stesso con modestia, «occasionalmente ho curato delle mostre» (di recente la molto ammirata blockbuster «Matisse: the Cut-Outs»), aggiungendo di avere «qualche idea su questo argomento». Può anticipare qualcosa? Non ancora, ma prossimamente parteciperà a una riunione del comitato per le mostre dove la questione potrebbe essere affrontata. Sicuramente non potranno bocciare la sua proposta, suggerisco. «Oh, non crederebbe a quello che possono dire», risponde sorridendo. «Possono senza problemi giudicare i miei suggerimenti non necessari o inadatti».

Jane Morris, 15 giugno 2016 | © Riproduzione riservata

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