Una serie fotografica realizzata a maggio 2020 da Antoine d’Agata presso il Centro di rianimazione da Covid-19 nel Centro ospedaliero di Argenteuil. © Antoine d’Agata

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Una serie fotografica realizzata a maggio 2020 da Antoine d’Agata presso il Centro di rianimazione da Covid-19 nel Centro ospedaliero di Argenteuil. © Antoine d’Agata

La collezione che nasce dalla paura collettiva

Una grande mostra al Mucem di Marsiglia espone il frutto della «colletta» di 600 oggetti emblematici del «quotidiano fuori dal comune» del lockdown per documentare la pandemia

Il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiarava l’epidemia di Covid-19 un’emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale. Il nuovo Coronavirus aveva fatto la sua apparizione a dicembre nel mercato di Wuhan, in Cina, e pochi giorni prima, il 23, la città e i suoi milioni di abitanti erano stati messi in quarantena. Scuole, negozi, mezzi pubblici, tutto era stato sospeso per un tempo indeterminato.

Il virus già circolava nel resto del mondo e per la prima volta abbiamo sentito parlare di distanziamento sociale. Abbiamo smesso di stringerci le mani e di abbracciarci. Il 9 marzo, in un’atmosfera surreale, entrava in vigore in Italia il primo lockdown. La Francia si chiudeva a sua volta pochi giorni dopo, il 17 marzo.

Sin dal 20 aprile, il Mucem, Museo delle civiltà d’Europa e del Mediterraneo, su iniziativa della sua direttrice scientifica, Émilie Girard, lanciava una grande colletta di oggetti emblematici di quel quotidiano fuori dal comune per raccontare e documentare la pandemia.

Ne è nata una mostra, dall’enigmatico titolo di «Psychodemie», che si tiene fino al 25 marzo al Centre de conservation et de ressources del museo. «La mostra, spiega il Mucem, è una riflessione sulla pandemia di Covid-19 e sugli effetti del “primo confinamento” sui nostri corpi, il nostro immaginario, le nostre società».

Più di 600 testimonianze sono arrivate a Marsiglia da tutta Europa e dal mondo. In un primo tempo i conservatori hanno chiesto alle persone che lo desideravano di inviare le foto degli oggetti che accompagnavano il loro quotidiano durante il lockdown: pantofole, mascherine fatte in casa, «diari del confinamento», autocertificazioni per le uscite, striscioni a sostegno di medici e infermieri. Qualcuno ha adattato una bici in cyclette.

Di questi 600 oggetti fotografati, 120 sono stati selezionati in funzione delle loro caratteristiche (era essenziale per esempio che potessero essere conservati a lungo termine) per raggiungere il museo ed entrare nelle sue collezioni permanenti. «La colletta è nata da un senso di emergenza: si trattava di reagire allo sgomento, di ristabilire un legame con il pubblico che non poteva più recarsi al museo e, al tempo stesso, di costruire un piccolo segmento di memoria di questo evento mondiale per trasformarlo in patrimonio storico collettivo», ha spiegato Aude Fanlo, responsabile del Dipartimento ricerca e didattica del Mucem e curatrice della mostra.

Oltre agli oggetti della colletta, accompagnati dai ritratti delle persone che li hanno inviati e dalle loro storie in un quotidiano reinventato, il museo allestisce anche una selezione dei 13mila scatti che Antoine d’Agata, fotografo dell’agenzia Magnum, ha realizzato durante il lockdown negli ospedali, nei laboratori di sequenziamento del virus, nelle strade deserte di Parigi.

D’Agata è entrato nel Centre d’urgence de détection du virus di Taverny, nella regione parigina, dove per otto giorni ha seguito medici, infermieri, giornalisti, forze dell’ordine al lavoro. All’Institut Hospitalier Universitaire di Marsiglia ha fotografato la progressione del virus nelle cellule infettate visibile al microscopio elettronico. L’idea del titolo è sua.

Che cosa vuole dire «psychodemie»? «È una parola che non esiste, non ancora almeno, ha spiegato d’Agata. Nel contesto di una crisi senza precedenti, mi era piaciuta l’idea di proporre una parola nuova. Il termine “psychodemie” evoca, intriga, suggerisce, benché se ne debba ancora inventare il senso».

Per molti dei suoi scatti, D’Agata, Premio Nièpce nel 2001, ha utilizzato una fotocamera termica e ottenuto immagini suggestive, al limite dell’allucinazione, che rappresentano forme accennate, spettrali, più che situazioni reali: «Volevo dar conto della paura collettiva, ha spiegato. Ho scelto questo strumento perché, misurando il calore e non la luce, accompagna lo sguardo all’interno degli esseri e degli oggetti. Per qualche settimana ho avuto il privilegio e la responsabilità di vivere accanto a esseri ridotti alla loro espressione fisiologica più semplice. Quella che Giorgio Agamben chiama la “nuda vita”».

La mostra si articola in cinque sezioni a cui sono stati dati titoli che rinviano a «una triplice dimensione: medica, politica, museale». La prima s’intitola «Ordonnance», in riferimento alle «ordinanze» con le quali i Governi hanno limitato gli spostamenti e le libertà individuali, parola che in francese significa anche «ricetta medica».

La seconda «Contagion» è dedicata al contagio, del virus ma anche delle paure per la malattia e per la carenza dei dispositivi di protezione, guanti, mascherine, camici per il personale medico, farmaci. Seguono «Traitement», «cura», e «Seuils», «soglie», in quanto limite fisico tra il dentro e il fuori.

L’ultima sezione, «Procession», si proietta nel «dopo lockdown», sui mesi da giugno a settembre 2021 e l’arrivo del vaccino. D’Agata ha fotografato le file in attesa davanti ai centri vaccinali di Marsiglia e Madrid, al tempo stesso simbolo di obbedienza civile ma anche di rifiuto della malattia e volontà di ritorno a una vita normale.

Mentre scriviamo il ritorno alla vita normale appare ancora lontano. A partire dai Paesi Bassi, primi in Europa a chiudersi in un nuovo lockdown. Una «quinta ondata» dell’epidemia colpisce la Francia, con oltre 50mila nuovi contagi quotidiani alle porte del Natale. I musei, rimasti chiusi per circa 7 mesi (da ottobre 2020 a maggio 2021), si possono visitare solo presentando un «pass sanitarie», corrispettivo del green pass italiano.

In Francia il virus ha ucciso circa 120mila persone, oltre 5,2 milioni nel mondo. Per puro caso, la mostra «Psychodemie», che non esisteva meno di due anni fa, accompagna un’altra esposizione del Mucem, prevista invece da molto tempo, da prima dell’apparizione del Covid, sulla storia politica e sociale dell’Aids: «Hiv/Aids: l’epidemia non è finita» (fino al 2 maggio).

All’inizio degli anni 2000, il Mucem, un museo «di civiltà e di società», aveva già realizzato un importante lavoro di raccolta e riunito un ricco fondo per documentare l’epidemia della fine del precedente millennio.

«Spettro» dalla collezione del Mucem di Marsiglia. Centre interdisciplinaire de conservation et de restauration du patrimoine (CICRP), Marsiglia. © Antoine d’Agata in collaborazione con Emilie Hubert-Joly / CICRP

Una serie fotografica realizzata a maggio 2020 da Antoine d’Agata presso il Centro di rianimazione da Covid-19 nel Centro ospedaliero di Argenteuil. © Antoine d’Agata

La residenza di Antoine d’Agata al Centro di Conservazione e Risorse del Mucem (6 luglio 2020). © Jerôme Cabanel

Luana De Micco, 02 febbraio 2022 | © Riproduzione riservata

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