Un’immagine del progetto, in corso, di Lorin Sookool, alla Biennale di Liverpool.

Foto: Tanja Hall

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Un’immagine del progetto, in corso, di Lorin Sookool, alla Biennale di Liverpool.

Foto: Tanja Hall

La Biennale di Liverpool si confronta con la storia coloniale

Le forme ancestrali e indigene di conoscenza protagoniste della 12ma edizione della rassegna britannica, curata dalla sudafricana Khanyisile Mbongwa e dalla direttrice della Biennale Samantha Lackey

Si svolge dal 10 giugno al 17 settembre la 12ma Biennale di Liverpool, che da oltre un decennio, grazie al ricco programma di mostre gratuite, spettacoli, sculture e installazioni all’aperto, proiezioni ed eventi collaterali, vivacizza il panorama artistico del Regno Unito. L’edizione di quest’anno, intitolata «uMoya: The Sacred Return of Lost Things», curata dalla sudafricana Khanyisile Mbongwa, insieme con la direttrice della Biennale Samantha Lackey, insiste sulle forme ancestrali e indigene di conoscenza, sui temi della cura e della guarigione, indispensabili per immaginare nuovi scenari futuri insieme alla città.

Una riflessione corale e diffusa che, muovendo dal polisemico termine «uMoya», che in lingua isiZulu significa spirito, respiro, aria, clima e vento, si dispiega nel tessuto urbano tra edifici storici, musei e gallerie d’arte, ma anche luoghi normalmente riservati allo svago. Con l’obiettivo di mettere in scena un dialogo di mutua reciprocità tra passato e presente, gli artisti sono stati invitati a confrontarsi con la storia coloniale di Liverpool, un tempo capitale della tratta europea degli schiavi, e a indagare il ruolo che le persone soggiogate hanno avuto nello sviluppo del commercio e nella formazione dell’Impero britannico, rileggendo la cartografia della città e relazionandosi con la sua architettura, con l’urbanistica e i monumenti pubblici.

All’insegna del sincretismo culturale, la manifestazione propone incroci di influenze eterogenee. Si va dalla grande opera al neon dell’australiano Brook Andrew (Sydney, 1970), che unisce lingue diverse tra cui gaelico irlandese, isiZulu, wiradjuri, urdu, mandarino e gallese, alla monumentale scultura di Eleng Luluan (comunità Kucapungane, Haocha, Pingtung County, Taiwan, 1968), che ha realizzato un vaso di metallo gigante ispirato alla leggenda secondo cui il fondatore dell’etnia di aborigeni taiwanesi Rukai sarebbe nato da un vaso di ceramica protetto da due serpenti.

Dai lavori in bronzo di Nicholas Galanin (Sitka, Alaska Tlingit/Unangax, 1979), che riflettono la mercificazione, la riproduzione, il furto e l’imitazione delle tradizioni culturali indigene, all’installazione di Rudy Loewe (Londra, 1987), che rappresenta un momento della rivoluzione del Black Power nella Repubblica di Trinidad e Tobago. Senza trascurare l’imponente scultura di Ranti Bam (Lagos, Nigeria, 1982), situata nei giardini della St. Nicholas Church, dov’è sepolto il primo residente nero registrato a Liverpool: Abell, uno schiavo africano.

Francesca Interlenghi, 08 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

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La Biennale di Liverpool si confronta con la storia coloniale | Francesca Interlenghi

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