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Daniela Lippi alle prese con i frammenti dei «Giocatori di carte» di Bartolomeo Manfredi. Foto di Massimo Sestini

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Daniela Lippi alle prese con i frammenti dei «Giocatori di carte» di Bartolomeo Manfredi. Foto di Massimo Sestini

Il Manfredi ferito, puzzle impossibile

Dilaniata dal tritolo mafioso nel ’93 la tela torna ora agli Uffizi

Ferita a morte dal tritolo mafioso il 27 maggio del 1993, «I giocatori di carte» di Bartolomeo Manfredi fu l’unica delle tante opere degli Uffizi colpite a essere giudicata irrecuperabile e non restaurata. Sulla tela del Seicento, trafitta da centinaia di schegge, restava soltanto un grande occhio bruno fra tracce dilaniate di colore. Ma quello che sembrava impossibile, far riprendere forma ai 400 frammenti della pittura originale, è accaduto: «I Giocatori», rimasti nei depositi degli Uffizi per 24 anni sotto la protezione di una carta velina, rivivono dopo un recupero eccezionale che ha richiesto un anno di restauri.

Il 27 maggio, 25esimo della strage che uccise cinque persone a Firenze, la tela ritorna in museo. A curarla è stata la restauratrice Daniela Lippi in una bottega di Firenze. L’intervento vero e proprio è iniziato a luglio 2017 grazie al successo (26mila euro) del crowdfunding «Cultura contro terrore».

Daniela Lippi, l’inizio del suo «rapporto» con l’opera di Manfredi è legato anche a ricordi personali di quando era integro?

Mi sono imbattuta nei «Giocatori» di Manfredi soltanto 4 anni fa, durante un sopralluogo al deposito degli Uffizi. Non lo avevo mai visto e chiesi di che cosa si trattasse... Fu un colpo e un ritorno immediato con la memoria al 1993 nei giorni dell’attentato in via dei Georgofili e quindi alle bombe del 1992 in Sicilia. Avevo 23 anni e quelle stragi segnarono un momento fondamentale del mio impegno civico. Rimasi fortemente impressionata e cominciai a chiedermi che cosa potevo fare per quell’opera: il restauro di dipinti mobili è il mio lavoro. Diventò un chiodo fisso e chiesi l’autorizzazione alla Direzione degli Uffizi di allora per uno studio di fattibilità con progetto. Quel che era stato velinato poteva durare altri vent’anni, ma c’erano da salvare i frammenti che rischiavano di diventare polvere.

Quando è iniziato il procedimento per «il restauro»?

Ottenni l’autorizzazione quando fu verificato che sulla vecchia tela di foderatura erano rimasti buona parte dei volti di quattro dei sei personaggi al tavolo da gioco. Con la disponibilità dei mezzi informatici che abbiamo oggi rispetto a 25 anni fa pensai che sarebbe stata possibile una ricostruzione virtuale attraverso la digitalizzazione dei singoli frammenti e il raffronto con la foto risalente al 1970, che raffigura il dipinto nella sua interezza. Chiesi un parere a un grafico esperto di programmi di fotoritocco e insieme abbiamo ipotizzato un programma di lavoro realizzando subito una sorta di simulazione, semplicemente sovrapponendo l’immagine del dipinto velinato a quella del 1970, anche per capire quali parti dell’opera avevano resistito al trauma. Nel luglio 2017 era terminata la prima fase operativa: l’acquisizione digitale di ogni frammento e di quanto rimasto sulla tela. Il risultato è diventato poi guida nella progettazione dell’intervento vero e proprio finanziato dal crowdfunding.

Crede che in questo caso si possa usare la parola «restauro»?

Forse è più pertinente la definizione di recupero. Non stiamo restituendo un’opera nella sua completezza di visione estetica e valori artistici, ma ciò che resta di essa dopo gli effetti dell’attentato. È un documento, una testimonianza di quell’evento terribile per serbarne memoria.

Dunque questa restituzione ha un forte valore simbolico. Crede che qualcuno rimarrà deluso per il fatto che l’opera rimane comunque mutilata?

Come restauratrice presto la mia attenzione alla materia che costituisce l’opera prima ancora che all’immagine che essa rende. È una deformazione professionale che credo sia propria di ogni restauratore. E qui invece ogni frammento da riposizionare conteneva un particolare, una campitura di colore, e ogni più piccolo dettaglio contribuiva a far riemergere una piuma di cappello o i riccioli dei capelli o la completezza di un volto. Alla fine, tra i frammenti sono stati trovati anche parte dei volti dei due personaggi più mutilati e forse questo è stato un miracolo! Qualcuno può aver pensato a un lavoro inutile, forse perché non si restituisce certo l’integrità del dipinto e della pittura del Manfredi ma solo un’ombra di essa. La lettura del dipinto sarà inevitabilmente diversa. Dopo l’attentato era sembrato impossibile farlo rivivere. Comunque senza una spiegazione oggi potrebbe non essere più visto come i «Giocatori di carte».

Qual è il suo stato d’animo di fronte ai frammenti conservatisi?

Di cura, di voglia di farli rivivere seppur mutilati. Li ho trattati come tratto qualsiasi altra opera, approfittando anche dell’estrema frammentazione per ottenere informazioni in più sulla tecnica pittorica di Manfredi. Al contrario dell’agire consueto con indagini diagnostiche non distruttive, qui avevamo materiale in abbondanza per indagini stratigrafiche, che abbiamo gestito all’inizio per la conoscenza della composizione degli strati preparatori e dei materiali estranei e di accumulo presenti sulla superficie pittorica e, in seguito, per comprendere le mescolanze e le sovrammissioni di colori realizzate dal Manfredi. La pulitura è stata svolta con il dipinto ancora ridotto in frammenti e solo dopo aver pulito fronte e retro della tela è cominciata la ricomposizione reale dell’opera sulla base del file con l’immagine virtuale. Tra l’altro il riposizionamento dei frammenti è continuato fino all’ultimo momento, prima, durante e dopo la pulitura, in alcuni casi scoprendo la posizione giusta dopo averli già posizionati altrove.

Daniela Lippi alle prese con i frammenti dei «Giocatori di carte» di Bartolomeo Manfredi. Foto di Massimo Sestini

Tina Lepri, 26 maggio 2018 | © Riproduzione riservata

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