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Un momento del convegno di Sansepolcro con Gabriele Finaldi direttore della National Gallery of Art di Londra

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Un momento del convegno di Sansepolcro con Gabriele Finaldi direttore della National Gallery of Art di Londra

I restauri devono andare incontro ai visitatori del museo

Jill Dunkerton, conservatrice e restauratrice dei dipinti della National Gallery, sorvola sul recente (e discusso) intervento di restauro della «Natività» di Piero nel corso del convegno internazionale organizzato dalla Fondazione Piero della Francesca a Sansepolcro

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Giorgio Bonsanti

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Il 22 settembre scorso Gabriele Finaldi, direttore della National Gallery di Londra, e Jill Dunkerton, restauratrice dello stesso museo, hanno presentato nella sede della Fondazione Piero della Francesca a Sansepolcro il recente restauro della «Natività» del grande artista rinascimentale. L’iniziativa era dovuta a Francesca Chieli, presidente della Fondazione e storica dell’arte, che dagli inizi del suo mandato ha preso utili iniziative per rilanciare l’istituzione, creando, tra l’altro, un comitato scientifico di cui fanno parte studiosi di valore, italiani e stranieri, fra cui lo stesso Finaldi.

Dal momento che il restauro in questione ha suscitato polemiche, l’aspettativa era forte e la partecipazione del pubblico è stata ai limiti della capienza del palazzo di via Aggiunti; il quale per suo conto era nient’altro che l’abitazione di famiglia del pittore e dei suoi. Ciò significa che a suo tempo la «Natività» si trovava proprio lì, dal momento che (evenienza sicuramente rara) il pittore l’aveva realizzata per la propria famiglia e non per un committente esterno; stava nella camera di Laudomia, vedova di Francesco, nipote di Piero. Un documento del 1500, otto anni dopo la morte del pittore (ottobre 1492), la cita come «una tabula cum nativitate domini nostri manu magistri Petri». Dopo la vendita nel 1825, il dipinto trovò sede definitiva presso la National Gallery, nel 1874.
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La relazione di Jill Dunkerton è stata accurata: ha ripercorso la storia conservativa del dipinto, potendosi riferire ai dossier sui restauri precedenti custoditi nella National Gallery, che ha sempre seguito con attenzione questo servizio di grande importanza. I restauri variamente documentati risalgono al 1861 (quindi prima dell’ingresso in Galleria), 1884, 1949-50, e 2020-22.

Nel restauro del primo dopoguerra, epoca in cui alla National Gallery regnava il restauratore Helmut Ruhemann, fu compiuto un intervento sul supporto ligneo sicuramente molto invasivo, con la realizzazione di una griglia metallica rigida e ripetute infiltrazioni di cera calda dal retro. Il restauro recente si è impegnato a eliminare per quanto possibile la cera (cosa certamente non facile) e ha liberato il supporto originale, affidandone la conservazione futura a un sistema realizzato secondo i criteri studiati all’Opificio delle Pietre Dure nei primi anni Novanta del secolo scorso, poi diffusi nel mondo anche grazie alla collaborazione dell’Istituto fiorentino con il Getty Institute di Los Angeles.

In ogni caso, è stato confermato che il dipinto, diversamente da quanto ritenuto in passato da molti, era stato portato a termine, e che il terreno asciutto e sabbioso su cui è inginocchiata la Vergine era voluto da Piero fin dall’origine. La conservazione della pellicola pittorica è anzi migliore di quanto comunemente stimato; addirittura sopravvivono impronte digitali dell’artista, come anche le fascinose figure del fringuello e dei due cardellini in primo piano, dipinte in leggiadra trasparenza. Quanto all’aspetto disastrato con cui si presentavano prima dell’ultimo restauro le figure dei due pastori a destra, è stato confermato che non si trattava di parti rimaste incompiute ma di un danno gravissimo inferto nel restauro precedente l’ingresso nella National Gallery.
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E qui il problema rimane. Come ho indicato nel mio intervento di febbraio, il restauro recente ha ritenuto di minimizzare il danno ridipingendo completamente due teste bellamente inventate, secondo l’inaccettabile principio di immaginare come le aveva dipinte l’autore: un gravissimo errore concettuale che ha condotto a un risultato inescusabile, che non può rimanere negli anni futuri a mortificare il sublime dipinto pierfrancescano. Non solo, del resto, è sbagliato il principio, ma anche la realizzazione è totalmente fuori luogo, con quel sordo color mattone che lascia sconcertati.

Il proposito di respingere visivamente sul fondo le teste ha sortito l’effetto opposto: non lo affermo soltanto io, ma anche, ad esempio, Naomi Grant nella «London Revue of Books» (13 luglio 2023): «I’m not convinced the curators are right when they claim that the retouched sheperds now fade properly into the background. If anything, they stand out more strongly» («Non sono convinta che i curatori abbiano ragione quando affermano che i pastori ritoccati ora sfumano correttamente sullo sfondo. Semmai, spiccano con più forza»). Nella sua esposizione la Dunkerton ha sostanzialmente sorvolato, dedicando al problema soltanto un paio di accenni e difendendo il principio che i restauri debbono venire incontro ai visitatori del museo.

Nella giornata di Sansepolcro, diversamente da quanto alcuni avevano immaginato, non è stato dato spazio a interventi del pubblico, e un po’ spiace non sia stata sfruttata questa opportunità di confronto. Per quanto mi riguarda, mi ripropongo di intraprendere iniziative di varia natura; ad esempio, procurando firme di colleghi del mondo della storia dell’arte che invitino a ripensare alla radice metodo e risultati del restauro pittorico, del resto facilmente reversibile. È già acquisito il consenso dei 130 storici dell’arte aderenti alla Sisca (Società italiana di studi di critica d’arte). Non voglio che per me diventi una fissazione, ma certamente ci metterò dell’impegno.

Le due teste al centro della polemica

Gabriele Finaldi e Jill Dunkerton

Giorgio Bonsanti, 28 settembre 2023 | © Riproduzione riservata

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