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Hou Hanru, il direttore che ha impresso una forte identità al MaXXI, è in scadenza di contratto: «L’instabilità è una delle poche cose stabili in Italia. Ma è un luogo comune affermare che in questo Paese la situazione è particolarmente drammatica e che non esiste la volontà dei politici e della società di sostenere la cultura e l’arte contemporanea»

Federico Castelli Gattinara

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Con la mostra «Please come back» (cfr. box p. IX) parte la nuova stagione del MaXXI di Roma, che per il 2017 riserva varie novità. A dicembre, dopo quattro anni, scadrà il contratto del direttore artistico Hou Hanru (Canton, Cina, 1963) che abbiamo intervistato.

Com’è nata l’idea di «Please come back» e come si collega al filo curatoriale del MaXXI?
Ho iniziato a pensare al progetto oltre tre anni fa, appena arrivato, riflettendo sulla programmazione a lungo termine e l’importanza del legame tra un’istituzione pubblica e le questioni più urgenti dei nostri giorni. Un museo deve avere la capacità di posizionarsi nel dibattito tra creazione e cambiamento della società, diventando come un laboratorio. Già nel 2014, in «Utopia for sale», che parlava di globalizzazione e mutamenti in rapporto agli attuali modelli economici, si affrontava la trasformazione dell’utopia da progetto sociale a oggetto di consumo. Tutto ciò che oggi guardiamo come nuove sfide e problemi, qui in Italia spesso è stato già testato, già espresso in modo radicale nella storia moderna del Paese, compresa l’immagine del carcere, del controllo, della lotta per la libertà. Basti pensare a Gramsci, un intellettuale imprigionato che fa della prigione il luogo di battaglia dove concentrare la sua energia, l’immaginazione, le riflessioni. Quando sono arrivato poi c’era anche un acceso dibattito sulla possibilità della carcerazione per certi politici.Il tema è molto interessante; la prigione non solo come luogo di pena, ma anche di resistenza e di produzione del pensiero. Così è nato il progetto.

Perché quel titolo? 
Viene dall’installazione di Claire Fontaine, che parla di questa condizione contraddittoria di internamento, controllo e resistenza. La mostra è un momento di ricerca più ampio, che affronta i problemi di sorveglianza e controllo sociale come funzioni necessarie ma allo stesso tempo paradossali dell’organizzazione della nostra società. Si comincia dalla prigione, poi si apre verso gli spazi urbani e infine si allarga in mondi ancora più vasti, il digitale, le nuove tecnologie, fino ai satelliti. Non c’è solo ricerca teorica e sociologica, ma anche artistica. 

Quali sono le novità della programmazione 2017?
In aprile ci sarà una vera rivoluzione: la collezione permanente, sempre a tema e sempre a rotazione ogni sei-nove mesi, quasi raddoppia gli spazi e cambia galleria, lascia la 4 per espandersi nella 1 al piano terra e nella 2 immediatamente sopra. L’intero pianoterreno sarà trasformato in un’area pubblica gratuita per tutta la settimana, eccetto il weekend, con la Galleria Scarpa dedicata ai video, con opere della collezione ma aperta ai contributi di artisti invitati, mentre la Galleria Gianferrari diventa il nuovo bookshop e ristorante-caffè accessibile direttamente dalla strada. Lo sforzo è di creare un contatto più diretto con la città, di aprirsi il più possibile al grande pubblico.

E le mostre?
Abbiamo come sempre un grande artista italiano, che sarà Piero Gilardi, una sorpresa che riteniamo sia interessante. È un artista poco «star» ma importante per l’arte italiana per diversi motivi. E poi architettura, con un omaggio a Zaha Hadid a un anno dalla scomparsa e un progetto di Yona Friedman, che è uno scambio con la Power Station of Art di Shanghai, a cui diamo la mostra di Superstudio. Le collaborazioni internazionali per noi sono vitali. Un’altra novità sarà «Einstein oggi», il nostro primo progetto su arte e scienza, campo poco praticato in Italia, realizzato insieme all’Agenzia Spaziale Italiana, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e il Miur, con un intervento importante di Tomás Saraceno. E ancora l’esplorazione del Mediterraneo: dopo Iran e Istanbul sarà la volta di Beirut, una città molto intensa, sia per la storia dei conflitti sia per la creazione di una nuova visione urbana. 

La collezione del MoCa di Teheran arriverà o no?
Il progetto è fermo per problemi interni all’Iran e molto difficilmente si sbloccherà. C’è la paura, tra i dirigenti di quel Paese, che una volta all’estero le opere vengano bloccate e non rientrino in patria.

Quali pregi e difficoltà ha trovato nel lavorare in Italia?
L’instabilità è la condizione permanente di questo Paese, la cosa più «stabile». Da un lato è negativa, per la pianificazione, il budget, la collaborazione con gli artisti, dall’altro però è positiva, perché stimola, mobilita energie, rende creativi. Per esempio, per «Please come back» non avevamo soldi e anche lo spazio non è grande. Non sapevo che cosa fare. Allora ho deciso di tenere l’allestimento della mostra di Shahzia Sikander, di organizzare i video sui pannelli già in loco, trasformando lo spazio in una sorta di cinema pubblico permanente. È una maniera per creare un modo diverso di guardare, un’occasione per rompere i tradizionali confini di spazio, tempo, programmazione. In generale il MaXXI offre una struttura complicata e bella, con una fluidità permanente che impone sempre nuove sfide.

Direttore e curatore di un grande museo sono la stessa cosa?
Io per fortuna sono solo il direttore artistico. Il curatore si orienta su progetti specifici, il direttore deve pensare al quadro d’insieme, alla coerenza, a dare un’anima a un corpo complesso fatto di tante parti. L’interazione con la società, un’attenzione permanente a essa, è fondamentale: il museo dev’essere un luogo di creazione, individuale e collettiva, ma anche di partecipazione, uno spazio civico dove sperimentare modi di essere diversi. Non si tratta solo di capire il senso delle opere ma anche di poterne essere trasformati, di trascendere la quotidianità. La democrazia dell’esperienza estetica è questa.

Qual è il suo bilancio in termini di ricerca, libertà di movimento e risultati?
Mi sono sentito sempre abbastanza libero di perseguire la mia linea di ricerca; le cose non sono sempre state facili, naturalmente, ma il bilancio penso sia molto positivo. La grande sfida era di creare un’infrastruttura stabile, nonostante l’instabilità. Ma credo che oggi sia la condizione di tutti i musei.

Qual è il limite dei musei di arte contemporanea in Italia? Che cosa cambierebbe?
Penso non sia solo una questione di soldi, ma di far capire che la politica culturale è una componente essenziale per una società. Che la situazione in Italia sia così drammatica è un cliché. C’è una forte volontà di sostenere la creazione contemporanea da parte della società e anche di una parte dei politici. Il Governo, con la riforma Franceschini, ha provato a dare una spinta dinamica ai musei, è una volontà interessante, vedremo se funziona. Penso anche che a Roma da un paio d’anni ci sia una nuova energia: la Galleria Nazionale di Cristiana Collu, per esempio, è un segnale forte.

Che cosa pensa della Biennale di Christine Macel?
Christine è un’amica, la conosco bene, però non ne abbiamo parlato. Il titolo «Viva Arte Viva» è stimolante, molto aperto, molto «italiano». Penso che la sua linea sarà focalizzata più sulle opere, l’esperienza diretta e fisica dell’arte, che sul discorso teorico e politico. Sono molto curioso.
 

Federico Castelli Gattinara, 07 febbraio 2017 | © Riproduzione riservata

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