Gabriel Pérez-Barreiro, curatore capo della 33ma Biennale di San Paolo, per l’edizione 2018, è anche direttore della collezione Cisneros

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Gabriel Pérez-Barreiro, curatore capo della 33ma Biennale di San Paolo, per l’edizione 2018, è anche direttore della collezione Cisneros

Gli artisti, curatori incurabili

Gabriel Pérez-Barreiro è il direttore della 33ma Biennale di San Paolo

Nel 1993 Achille Bonito Oliva, alla Biennale di Venezia, varò la curatela plurale, facendosi lui regista e chiamando uno stuolo di commissari e curatori (una sessantina circa) a collaborare al suo articolato progetto. Non mancò chi, malignamente, osservò che, coinvolgendo praticamente tutti i critici sulla piazza, nessuno avrebbe criticato la sua Biennale. In realtà si trattò di un’idea vincente e non a caso ripetuta dai suoi successori, tra i quali lo stesso Francesco Bonami che, ovviamente, collaborò a quella Biennale.

Anni dopo nacque la moda delle biennali curate dagli artisti: nel 2004 Massimiliano Gioni, che l’anno prima aveva collaborato alla Biennale di Bonami, chiamò il sodale Maurizio Cattelan alla guida di Manifesta, insieme ad Ali Subotnik, curatrice di professione. Nel 2009 gli artisti Michael Elmgreen e il norvegese Ingar Dragset curarono la mostra nel padiglione danese ai Giardini, una collettiva in cui esponeva lo stesso Cattelan, che tre anni dopo avrebbe a sua volta curato «Shit and Die», mostra collaterale di Artissima a Torino.

Ma gli esempi sono numerosissimi; la stessa Carolyn Christov-Bakargiev dichiara con orgoglio di avvalersi, come «consiglieri», anche di alcuni artisti. Gabriel Pérez-Barreiro, direttore della Biennale di San Paolo, per l’edizione 2018 ha messo insieme la collettività di ABO e la delega della curatela agli artisti chiamandone sette a concepire altrettante mostre. Magari sarà una cosa fantastica, ma stando ai programmi c’è, almeno in parte, da dubitarne. Il maggior pregio sembra essere il coinvolgimento di colleghi non ancora del tutto omologati dal mercato (ma anche questa è diventata una moda, sulla scia di certe sezioni delle fiere d’arte contemporanea).

Ma i temi non denunciano chissà quale originalità, non distaccandosi da certi ormai tristanzuoli dettami curatoriali. Uno di essi è la presenza fissa di un paio almeno di outsider, nell’espressione gergale, che nel sistema dell’arte sta a indicare i non professionisti in genere monomaniaci: vedi la mostra affidata a Mamma Andersson, che con pari fervore si attiene alla regola dell’extrasettorialità un po’ eccentrica esponendo un po’ di icone russe e convocando un attempato regista cinematografico svedese (Gunvor Nelson) e Ake Hodell (1919-2000), suo connazionale, di cui si sottolinea con molta enfasi il fatto che fosse un pilota di caccia e un artista sonoro.

L’altro dogma è l’abbinamento tra interdisciplinarità e passato remoto: il filosofo pedagogo tedesco Friederic Fröbel (1782-1852) voluto da Antonio Ballester Moreno nella mostra intitolata «sentido/comun»). Waltercio Caldas si incarica di antiquariato e modernariato riproponendo Victor Hugo ma in veste di pittore e disegnatore, in compagnia dello scultore basco Jorge Oteiza (1908-2003) e del
brasiliano Vicente do Rego Monteiro (1899-1970).

I temi? Un po’ di decrescita felice (in «O pássaro lento» curata da Claudia Fonted), una spolverata di ripetizione differente (Sturtevant e Louise Lawler nella sezione curata da Alejandro Cesarco), gli evergreen terra, nazione, territorio, corpo, memoria, gesto, architettura, storia ecc. (Wura-Natasha Ogunji), storia e tragedia (Sofia Borges), una grattugiata di galleria e una moderata guarnizione di altri bei nomi (Sarah Lucas, Mark Dion).

Insomma, stando alla vigilia, si direbbe che gli artisti si appiattiscano con molta docilità allo standard curatoriale attuale, già di suo a corto di fiato e di idee. Ma le mostre sono fatte di opere, non di parole, e magari la 33ma Biennale di San Paolo (la megalopoli brasiliana che porta il nome dell’«apostolo dei Gentili», il vero e inflessibile fondatore dell’ortodossia cattolica) ci lascerà a bocca aperta.

Però Ralph Rugoff, il curatore della prossima Biennale di Venezia, ci ha appena detto che «ciò che più conta in una mostra non è quello che viene esposto, ma come il pubblico possa poi servirsi dell’esperienza della mostra per guardare alla realtà quotidiana da punti di vista più ampi e con nuove energie».

Quindi vale tutto, e se è così tanto vale cambiare ruoli e definizioni. Con il dubbio che quel tutto che ci viene somministrato rischi di essere uno schema terribilmente uguale a se stesso, ripetitivo e quindi più anestetizzante che rigenerante, al di là dei nomi e delle opere, da Venezia a San Paolo.

Gabriel Pérez-Barreiro, curatore capo della 33ma Biennale di San Paolo, per l’edizione 2018, è anche direttore della collezione Cisneros

Franco Fanelli, 03 settembre 2018 | © Riproduzione riservata

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