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Femministe, quindi casalinghe

Luana De Micco

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Le artiste tramutano la casa da prigione a spazio creativo

«Walking House» (1989) di Laurie Simmons. Courtesy l’artista e Salon 94, New York«Lo spunto è stata la mostra “Womanhouse” che Miriam Schapiro e Judy Chicago, cofondatrici del Feminist Art Program del California Institute of the Arts, organizzarono nel 1972, che resta una delle rassegne d’arte femminista più importanti di sempre. Le artiste avevano all’epoca una visione molto politica della questione dello spazio domestico e del ruolo della donna. Da allora ad oggi molte conquiste sono state fatte.

La nostra mostra, “Women House”, che abbiamo messo al plurale, vuole mostrare l’evoluzione e la diversità dei punti di vista delle artiste sullo spazio casa e sui rapporti tra domesticità e corpo della donna. Le problematiche sono cambiate ma questo resta un tema centrale nella loro riflessione». Così Lucia Pesapane, curatrice con Camille Morineau della mostra allestita alla Monnaie de Paris dal 20 ottobre al 28 gennaio.

La rassegna è stata realizzata in collaborazione con il National Museum of Women in the Arts di Washington (dove nel 2018 si sposterà, dal 9 marzo al 28 maggio). Vi sono raccolte un centinaio di opere di 40 artiste giovani e storicizzate, europee, statunitensi, sudamericane, sudafricane e asiatiche. Tra loro, Niki de Saint Phalle, Cindy Sherman, Louise Bourgeois, Joana Vasconcelos e Mona Hatoum. 

Lucia Pesapane, com’è cambiata la percezione della casa per le artiste? 

Già nel 1929 Virginia Woolf aveva sottolineato che la donna aveva bisogno di una stanza tutta per sé, dove stare bene e esprimersi. Negli anni Settanta, talvolta anche con una certa ironia, le artiste vedevano la casa ancora come una prigione o una gabbia. Oggi la casa è un rifugio, uno spazio creativo, dove trovare ispirazione e lavorare, è l’atelier nel senso auspicato da Virginia Woolf. In alcune artiste contemporanee la riflessione sulla casa evolve e si lega a questioni di grande attualità.

Per esempio?

Potrei citare Andrea Zittel e Lucy Orta che riflettono sullo spazio domestico alla luce delle attuali migrazioni e delle guerre. Emerge un modo diverso di vivere la casa, mobile home per Andrea Zittel, fatta di abiti per Lucy Orta. Esponiamo anche le fotografie di Zanele Muholi sulla comunità lesbica in Sudafrica. Per queste donne, alle quali è vietato mostrarsi in pubblico, la casa è il luogo in cui esprimersi liberamente. 

«Women House» è la prima mostra che si tiene alla Monnaie dalla fine dei lavori che hanno permesso di aprire nuovi spazi. Che cosa è cambiato per l’allestimento? 

Il percorso è completamente nuovo. Per la prima volta occupiamo anche spazi esterni esponendo tre opere monumentali nei tre cortili. Sono i punti forti della mostra. Dal punto di vista logistico e organizzativo il lavoro è stato piuttosto complesso. La Nana-casa di Niki di Saint Phalle è stata restaurata durante l’estate e trattata contro la pioggia. Per il lavoro in tessuto e gusci d’uovo della cinese Shen Yuan il problema è ancora diverso perché si tratta di un’opera che deve essere montata sul posto. Le persone potranno penetrare nelle sculture, camminarci sopra, toccarle. Per noi è nuovo e molto interessante da osservare.

Questa mostra è la prima di un ciclo di collettive dedicate alle artiste. Perché questo impegno della Monnaie per l’arte al femminile?

È un tema su cui lavoro da tanto tempo con Camille Morineau. Insieme abbiamo curato nel 2009 la mostra «Elles» del Centre Pompidou. L’interesse per la creazione al femminile e il sostegno alle artiste fa parte dei nostri studi e del nostro Dna. È una delle grandi possibilità che Camille Morineau ha voluto dare al museo prendendone la direzione poco meno di un anno fa. È una questione di coerenza.

Luana De Micco, 14 ottobre 2017 | © Riproduzione riservata

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