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Stefano Luppi
Leggi i suoi articoliSette secoli di storia dell’arte a Bologna, da Cimabue a Giorgio Morandi, compongono la rassegna «Felsina Pittrice», organizzata a Palazzo Fava da Genus Bononiae dal 14 febbraio al 17 maggio. Una mostra affidata alla curatela di Vittorio Sgarbi e che già ben prima di aprire ha creato forti polemiche tra gli studiosi, Daniele Benati dell’Alma Mater in primis, che contestano l’impianto scientifico del progetto e soprattutto lo spostamento delle opere dai musei. Sgarbi e il presidente di Genus Bononiae e dell’Accademia di Belle Arti di Bologna Fabio Roversi Monaco, in una conferenza stampa dello scorso dicembre, hanno illustrato le linee guida del progetto che, per la prima volta in maniera così estesa, intende dare conto dei capi d’opera presenti in città a partire dalla «Maestà» di Cimabue e scuola, tavola attribuita al 1280-90 e conservata, poco visibile, nella chiesa bolognese di Santa Maria dei Servi. A partire da questa celebrata opera, nota alle fonti solo da metà del XIX secolo e forse donata ai padri Serviti cinquecento anni prima dal nobile Taddeo Pepoli, si dipana la rassegna che attraverso una settantina di opere ricorda, tra l’altro, il lavoro di due dei più noti storici che a Bologna si dedicarono allo studio dell’arte. «Felsina Pittrice» richiama infatti l’omonimo volume del principale storiografo dell’arte locale, Carlo Cesare Malvasia, che nella prima edizione del 1678 codificò molti degli artisti che dal Medioevo al XVII secolo operarono sotto le due torri. Sgarbi poi dedica la mostra a Roberto Longhi e a Francesco Arcangeli: il primo insegnò all’Alma Mater dal 1934 al 1950 e il sottotitolo della mostra «Da Cimabue a Morandi» è il medesimo del Meridiano Mondadori che Gianfranco Contini realizzò nel 1982 raccogliendo i testi di Longhi stesso. Sgarbi allestisce una rassegna che riunisce quadri conservati lontani, se non altro dando la possibilità di formulare riflessioni che solo una visione diretta e concomitante può fornire. In mostra manca purtroppo il polittico che Giotto eseguì per la chiesa di Santa Maria degli Angeli di Bologna e che oggi è alla Pinacoteca Nazionale (la tavola andrà a Milano per la mostra, legata all’Expo, «Giotto, l’Italia. Da Assisi a Milano»; cfr. l’articolo a p. 27), ma non altri capolavori. Primo tra tutti l’«Estasi di santa Cecilia» di Raffaello e aiuti, commissionata nel secondo decennio del ’500 da Elena Duglioli per la chiesa di San Giovanni in Monte e oggi alla Pinacoteca bolognese. A Palazzo Fava, affrescato dai Carracci, c’è molto altro, fino alle opere di Morandi conservate al MAMbo: la «Madonna del ricamo» di Vitale da Bologna, un polittico di Lippo di Dalmasio con san Giacomo Maggiore, san Giovanni Battista e san Pietro, Ubaldo Gandolfi con «Diana Endimione», due ovali a tema mitologico di Marco Antonio Franceschini, un doppio ritratto di Simone Cantarini, «Ratto d’Europa» di Guido Cagnacci della collezione Molinari Pradelli insieme ad altri lavori di Annibale Carracci, Guido Reni, Guercino e Parmigianino. Già da alcune settimane, infine, a Santa Maria della Vita, al fianco del «Compianto su Cristo Morto» di Niccolò dell’Arca, è esposto un san Domenico del medesimo artista, di proprietà del curatore della mostra.
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