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E il mondo conobbe gli Angeli del fango

Tutti volevano dare un contributo. Ma già allora il console inglese lamentava gli intralci della burocrazia

Martin Bailey

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Di fronte alla più grande perdita arrecata all’arte e all’architettura da una calamità naturale nell’Europa del Novecento, la comunità internazionale si mobilitò rapidamente inviando gli Angeli del fango, i volontari che, nell’emergenza, aiutarono a salvare le opere d’arte. «Tutti volevano dare il loro contributo e salvare dal fango un Cimabue», ricorda Jonathan Keates, ora presidente di Venice in Peril. Gli sforzi internazionali furono importanti per trovare fondi e personale supplementare. 

Christopher Pirie-Gordon, console inglese a Firenze, descrisse perfettamente l’alluvione in un dispaccio ai National Archives. Dopo piogge eccezionalmente intense e prolungate, il fiume Arno ruppe gli argini, salendo di più di dieci metri rispetto al suo livello normale. L’acqua sommerse rapidamente il trecentesco Ponte Vecchio allagando le botteghe dei gioiellieri. L’alluvione colpì tutto il centro storico, raggiungendo la cattedrale e arrecando «danni incalcolabili alle porte di Ghiberti del Battistero». Il console scrisse delle pile di automobili accatastate, alcune «allacciate in verticale sugli pneumatici posteriori come se ballassero un valzer». Nel suo dispaccio, Pirie-Gordon criticò aspramente le autorità italiane per non aver dato il giusto allarme, suggerendo che, come si faceva in passato, «avrebbero dovuto far suonare la campana di Palazzo Vecchio». Gli interventi di salvataggio dei giorni successivi furono «deplorevoli» e la burocrazia «intralciò» gli sforzi.

Anche Venezia ha sofferto terribilmente di fronte alla peggior piena della sua storia. Nonostante i danni immediati fossero stati più ingenti a Firenze rispetto alla città lagunare, fu quest’ultima ad attirare il sostegno internazionale sul lungo periodo. Nel Nord Italia morirono un centinaio di persone, un numero relativamente basso considerando l’estensione dell’area colpita. Secondo Peter Scott, incaricato britannico a Roma, in termini finanziari, i costi iniziali del disastro vennero stimati tra i 500 milioni e il miliardo di sterline (tra 10 e 20 miliardi di euro di oggi).

Due mesi dopo la piena, 200 tavole gravemente danneggiate provenienti da diverse collezioni fiorentine furono asciugate nella serra della Limonaia dei Giardini di Boboli. Altre 300 tele vennero trattate a Palazzo Pitti. Il rapporto stilato dall’Unesco qualche settimana dopo riferì che 885 capolavori e circa 10mila altre opere erano stati colpiti dalla piena. Alla Biblioteca Nazionale di Firenze subirono danni 1,3 milioni di libri, un terzo della collezione. Preziosi documenti d’archivio furono sommersi dall’acqua. Il mondo dell’arte rimase pietrificato. Gli sforzi internazionali per aiutare Firenze furono guidati da Ashley Clarke, ambasciatore britannico a Roma in pensione. Un mese dopo gli eventi istituì l’Italian Art and Archives Rescue Fund, con sede a Londra, con spazi ufficiali alla National Gallery (tra i suoi illustri trustee, Anthony Blunt, Kenneth Clark, Philip Hendy, Henry Moore e John Pope-Hennessy). Entro il 1967, aveva inviato 100mila sterline in Italia, una somma all’epoca molto sostanziosa. Tutti quei soldi andarono praticamente a Firenze, con solo mille sterline destinate specificatamente a Venezia.

Un’organizzazione di fundraising venne istituita negli Stati Uniti, oltre al Committee to Rescue Italian Art, con Jacqueline Kennedy come presidente onorario. Gruppi simili nacquero in Francia, Austria, Germania e nei Paesi Bassi. Due anni dopo l’alluvione, una volta conclusi i lavori di emergenza, l’attenzione internazionale passò da Firenze a Venezia. Frances Clarke, che insieme al marito Ashley era profondamente coinvolta, ricorda ancora molto bene quel che successe: «I fiorentini dissero grazie, ora possiamo fare da soli, ma il soprintendente di Venezia disse “Dovete venire qui”». Questo portò alla creazione nel 1971-72 di due enti di fundraising: Venice in Peril nel Regno Unito e Save Venice inc. negli Stati Uniti. Quasi cinquant’anni dopo, sono entrambi ancora attivi e offrono assistenza nella conservazione del patrimonio artistico e architettonico e nell’organizzazione di campagne per contribuire a preservare il delicato equilibrio ecologico della città.

Gli Angeli ricordano: che cosa videro, annusarono, udirono e fecero Unità di crisi «Il secondo o terzo giorno, ci fu un incontro generale di tutte le persone che lavoravano agli Uffizi sotto la guida di Umberto Baldini (dal 1949 direttore del Gabinetto di Restauro della Soprintendenza, Ndr). Si doveva decidere che cosa fare come misura d’emergenza. Alcuni punti furono ovvi fin da subito. Le tele erano un problema ma non quanto le tavole. Fu subito chiaro che il legno e tutti i materiali pittorici si erano gonfiati, talvolta in maniera difforme se i quadri erano stati sommersi solo in parte. Ma nessuno fu in grado di alzarsi e dire “Sì, ho già trattato un trittico fiorentino del Trecento rimasto sott’acqua per due ore, so cosa fare”».
Marco Grassi, restauratore di New York, nel 1966 attivo in Svizzera e a Firenze

Fango, fango e ancora fango «Fu un susseguirsi di momenti inquietanti uno dopo l’altro. Si cercava di andare in giro per strada ma il fango e la puzza complicavano le cose. Ricordo che stavo camminando in Borgo San Jacopo proprio vicino a Ponte Vecchio con gli stivali di gomma e sono finito in uno dei tanti tombini aperti dalla pressione dell’acqua. Erano ricoperti da così tanto fango che era impossibile vederli. Ero sconvolto. Ci raccomandarono di portare sempre con noi dell’acqua ossigenata per poterci disinfettare in caso di ferite perché il fango era contaminato».
Andrea Rothe, ex direttore del restauro pittorico al Getty Conservation Institute. Lavorava a Firenze nel 1966

Prosciugare gli Uffizi«Telefonai a mio cognato, la cui famiglia era proprietaria di una cava di ghiaia e aveva molti macchinari pesanti. Convinse il padre a prestargli una Land Rover e una grossa pompa industriale. Reclutai un manipolo di studenti con cui andavamo avanti e indietro da Firenze non stop. Fortunatamente avevamo un 4x4, l’unico veicolo in grado di farsi strada in quella situazione. Il fango era indescrivibile. Faceva un freddo terribile, ti entrava nelle ossa. L’umidità e la puzza me le ricordo ancora oggi, tanfo di gatti morti, carne in putrefazione, materiale di decomposizione, liquami e oli combustibili dappertutto. Arrivammo davanti agli Uffizi e chiedemmo cosa potevamo fare. Ci guardarono con il terrore negli occhi perché era passata meno di una settimana dalla piena. Mi guardai intorno nel seminterrato degli Uffizi, pieno di scatole annerite... tutto letteralmente traboccante d’acqua. Chiesi perché non fosse stata tolta l’acqua e mi risposero che non avevano pompe idrovore. Dissi: “Ce l’ho io una pompa!”. La prima cosa che facemmo fu svuotare dall’acqua il seminterrato degli Uffizi».
Patrick Matthiesen, gallerista a Londra e Angelo del fango. Era studente al Courtauld Institute of Art nel 1966

Un museo del contemporaneo con Sottsass e la Pivano «Ero bloccata in casa. Per fortuna, appena fu possibile, vennero a trovarmi da Milano Ettore Sottsass e Fernanda Pivano, portandomi sette taniche di acqua potabile! Rimanemmo chiusi in casa, a fare progetti, e ci venne in mente la possibile creazione di un museo d'arte contemporanea, a Firenze, che avrebbe potuto avere il primo nucleo proprio grazie al dono di artisti internazionali alla città colpita dall’alluvione, che in quel momento godeva dell’attenzione di tutto il mondo. Quell’idea fu poi ripresa da Ragghianti, ma a dire il vero era stata nostra; comunque Ragghianti la trasformò da internazionale a solo italiana. I doni degli artisti sì ci furono, e sono oggi esposti in parte al Museo Novecento, ma il museo non è mai nato ed è un peccato perché Firenze allora era piena di fermento e i giovani architetti (i gruppi radicali) espressero molto slancio e proposte nei confronti della città così offesa».
Lara-Vinca Masini, critica d’arte

Quei giocattoli galleggianti tra il fango e il cherosene«L’alluvione l’ho vista “nascere” quasi in diretta, ma in maniera inconsapevole. La mattina del 4 novembre alle 5 stavo accompagnando mio padre a caccia: sul Lungarno all’altezza della Biblioteca Nazionale la nostra auto fu investita da un’onda che oltrepassò la spalletta dell’Arno, improvvisa, inaspettata. Solo allora ci si rese conto dello stato in cui era il fiume che attraversava una Firenze deserta. Angelo del fango lo sono stato appena le acque sono calate, andando a soccorrere quanti avevano visto la propria abitazione sconvolta dalle acque, e ho ancor vivo il ricordo dei giocattoli che galleggiavano tra il fango e il cherosene. Recentemente è stata pubblicata una foto che mi ritrae intento a salvare dei libri: non erano quelli della Biblioteca Nazionale, ma volumi della nostra casa editrice, stipati fino al soffitto in un magazzino in via Ghibellina. L’acqua li aveva gonfiati al punto da sollevare il pavimento del primo piano, tanto che per liberarli si dovette usare il piccone». Daniele Olschki, casa editrice Leo S. Olschki

Martin Bailey, 06 novembre 2016 | © Riproduzione riservata

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