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Dovremmo essere felici come dei re

Sul ruolo e sulla necessità di un Museo della Moda in Italia, l’editoriale di Giacomo Santucci, «guru» della moda mondiale, già top manager di Ferragamo, Prada e Gucci

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Redazione GDA

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Baudelaire nel 1863 scrisse nel «Figaro» un saggio sul «Pittore della vita moderna», in cui le sue rêverie hanno per oggetto la figura dell’artista, la bellezza, l’immaginazione, le donne e la Moda, alla ricerca del significato di questi temi e di come essi rappresentino l’essenza della modernità.

L’arte per metà è legata alla modernità, alla magia del transitorio, del contingente, e per metà è legata all’eterno immutabile. Questa alchimia lega passato e presente e prepara il futuro nella comprensione di oggi. Questo processo richiede una figura di «uomo universale», libero e spregiudicato, contraddittorio e paradossale, un uomo del mondo intero che comprende il mondo stesso e le ragioni più misteriose dell’universo, e per il quale la curiosità è il punto di partenza. Potremmo calare queste considerazioni inerenti all’artista moderno nel ruolo del «direttore creativo» di oggi, che si interessa ed è affascinato dalle novità del mondo di cui cerca di conoscere i meccanismi più intimi e profondi, un animale depravato che sa mantenere la capacità di «vedere» e soprattutto la «potenza di esprimere», innamorato della «vita universale» e che entra nella folla come in una enorme centrale di elettricità.

L’Arte è la combinazione di questi due elementi della bellezza, l’elemento eterno invariabile ma anche quello relativo all’epoca: la passione per il tempo che si vive e che si vuole rappresentare. La Moda sostanzia il secondo aspetto, è come un involucro senza il quale il passato, l’eterno non sarebbero gustabili e sarebbero quindi inadatti, obsoleti, vecchi. La Moda da sempre riesce in questo processo di reinterpretazione, di «mise en abyme» del passato, dell’Heritage e del Dna, e lo fa proprio attraverso questi grandi uomini, interpreti di modernità. È così che il prodotto, oggi diremmo il marchio, assume percettivamente connotazioni di modernità.

C’è bisogno di un’urgenza di bellezza per le cose impossibili che ci aiuti al contempo a essere fiduciosi nel mondo, a credere in noi stessi e nel nostro futuro. Una bellezza che tamponi e superi le aberrazioni e in cui il passato è sempre la nostra lente di ingrandimento per capire la vera e nuova prospettiva del bello, la tavolozza con cui ridipingiamo il presente: valori fondanti ma espressi con la nostra lingua e i nostri strumenti. La Moda ci deve appartenere, deve aiutarci a immaginare ciò che non c’è, a vedere la vita come se dovesse succedere sempre qualcosa di meraviglioso. In «A Child’s Garden of Verse» (1885) Robert Louis Stevenson cercò di mettere in versi l’innocente senso di meraviglia che caratterizza l’infanzia, scrivendo: «Il mondo è così pieno di tante cose che dovremmo essere felici come re». Naturalmente, infanzia e bambino sono invenzioni adulte, storicamente specifiche, che ancora condividiamo.

I Musei hanno il compito di sollecitare e condividere proprio questo stupore infantile di fronte alla mirabile varietà degli oggetti naturali e dei manufatti, offrendo in premio un sentimento di piacere, un diletto, oltre alla conservazione, allo studio e alla ricerca. Un ampliamento percettivo di quel «Musée Imaginaire» che lo stesso André Malraux creò nel 1947 e di cui parla nella trilogia della «Psychologie de l’Art». 

Un simile Museo si giustifica per il fatto che riunisce l’insieme delle opere che s’impongono alla sensibilità della nostra epoca, raggiungendo la coscienza stessa dell’arte, la verità della creazione che raccoglie e trasforma in sé tutte le opere.

La Moda e il Costume si inseriscono di diritto in questa costruzione del Museo all’interno della vita sociale degli oggetti, vale a dire di una storia della cultura materiale e dei suo valori, anche emotivi: quello della politica dell’istituzione museale nella sfera pubblica in quanto luogo specifico di rappresentazione di un patrimonio o di una disciplina. E infine anche quello dell’uso dell’istituzione museale in quanto tradizionale incarnazione di un’ermeneutica in atto. Fase terminale della biografia di un oggetto, l’alternativa all’eliminazione sotto forma di frammenti o altri detriti è una diversione nel percorso delle merci o della sua destinazione funzionale che porta, in termini antropologici, a una «singolarizzazione», legittimando l’elezione dell’oggetto rispetto alla massa degli oggetti che sono in uso, logorati, trascurati o distrutti. 

Il Museo in generale, e quello della Moda in particolare, rappresenta la testimonianza delle tracce lasciate da collezioni, da «mises en scène» o da altre appropriazioni, private o pubbliche, in cui gli oggetti venivano considerati in maniera diversa: è a partire da questa distanza che esso costruisce delle ideologie dell’oggetto. Un transfert di significato che tocca oggi i «memorabilia» e i «personalia» legati a una persona o a un gruppo, «oggetti di famiglia» che possono divenire, all’interno di un fondo etnografico o di un centro d’interpretazione ad hoc, altrettanti obiettivi della memoria collettiva e così contribuire alla dialettica dell’emozione.

La necessità di un Museo della Moda s’inserisce inoltre in quel discorso e approccio che interpreta il Museo in termini di costruzione di uno spazio pubblico, perché rende visibili a chiunque i princìpi del proprio ordine.

Se l’autorevolezza intellettuale, sociale o politica dei Musei non è più quella dei secoli passati, in larga misura sussiste una parte delle loro funzioni classiche di luoghi di contemplazione, di immaginazione e di rifugio dal mondo. Il pubblico ricerca significato e felicità. «Quando i visitatori entrano in un museo, non lasciano la loro cultura e la loro identità al guardaroba, e neppure rispondono passivamente ai materiali esposti. Piuttosto, essi interpretano le mostre allestite all’interno attraverso l’esperienza vissuta e i modelli, i valori e le capacità percettive culturalmente appresi e acquisiti attraverso l’esperienza» (Karp, 1995). Lo sviluppo della musealizzazione del Costume in un settore di eccellenze come la Moda, nel nostro Paese darebbe inoltre una sostanza maggiore al concetto di «Museo diffuso». Culla della museologia classica, dei grandi musei, delle pinacoteche famose, dei musei archeologici ricchissimi di reperti, l’Italia è predisposta alla poetica del museo diffuso. Concetto quest’ultimo che definisce la continuità tra bene culturale e paesaggio e lo stretto rapporto con il territorio che caratterizza appunto i musei del nostro Paese, partendo dal territorio inteso come deposito di tracce del passato, da riconoscere, decifrare e contestualizzare in collegamento con il patrimonio conservato nei musei, che quindi trovano all’esterno l’estensione ideale e il luogo simbolico dove ricostruire l’identità e il legame con la storia e la cultura che ha generato le opere in essi conservate. La Moda aiuta il Museo a diventare uno dei centri d’interpretazione e a rileggere le vicende storiche della comunità cittadina della quale si fa parte, ricostruendone, attraverso la memoria, l’identità. Spazio di storie incrociate, esposizione delle nostre inquietudini, il Museo vuole ora partecipare al trionfo di una retorica dell’accesso, sotto forma di una diffusione di informazioni che equivale a una legittimazione politica e culturale.

Redazione GDA, 06 settembre 2017 | © Riproduzione riservata

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