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Donata Pizzi © Andrea Simeone

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Donata Pizzi © Andrea Simeone

Donata Pizzi: la fotografia al femminile

La più importante collezionista di fotografia italiana femminile racconta come si è evoluta la sua raccolta dagli anni ’60 ad oggi

Elisabetta Oropallo

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Nella Giornata Internazionale della Donna, una donna intervista una donna che colleziona fotografie scattate da donne; per ricordarne le conquiste economiche, politiche e sociali e condannare sempre la violenza e la discriminazione di cui le donne, purtroppo, sono ancora oggetto in ogni parte del mondo.

Nel 1980 Lea Vergine, curatrice e critica d’arte, scriveva: «Le artiste donne sono passate dalla cronaca all’eternità senza passare dalla storia». È ancora così?
La mostra di Lea Vergine «L’altra metà dell’avanguardia» è stata per me un vero spartiacque, mi ha dato conferma che bisogna combattere per l’emancipazione, ma che noi donne siamo sempre l’altra metà: quella penalizzata. È ancora così, certo, anche se negli anni le cose stanno migliorando, seppur in maniera lenta e discontinua.

In che cosa si distingue, secondo lei, la fotografia femminile?
Il rapporto tra le donne e la fotografia inizia con la nascita dell’invenzione a fine Ottocento. Le artiste trovano subito un naturale alleato nel nuovo strumento tecnologico, che permette loro di rivendicare in modo esplicito ambizioni artistiche e autonomia professionale. Come dice Federica Muzzarelli: «Attraverso la prima ondata di femminismo, con la battaglia per i diritti, la richiesta di emancipazione sociale e l’emersione politica, le fotografe dispiegano quelle che restano poi con evidenza le loro caratteristiche specifiche». Quindi originalità, capacità di analisi, approfondimento e, per me molto importante, anche humour.

Come nasce l’idea della sua collezione, e perché proprio dagli anni ’60 ad oggi?
La nascita della collezione deriva dalla mia fascinazione per le immagini, il loro potere mi è stato evidente da sempre. Il mio lavoro è sempre stato attorno alla fotografia, come archivista, editor, fotografa. È un mondo che ho conosciuto a fondo e, nel tempo, ho maturato l’idea di voler contribuire in qualche modo allo studio della fotografia italiana. L’Italia è in forte ritardo nel riconoscere il contributo dei suoi autori, per questo inizialmente il mio obiettivo generico era quello di promuovere la fotografia italiana all’estero. Pensando da quali fotografie partire, mi sono resa conto di avere in mente principalmente immagini di fotografe donne. Quindi direi che, per ragioni biografiche, ho cominciato dagli anni ’60, anni cruciali per il femminismo che ha amplificato le potenzialità della fotografia creando una connessione imprescindibile tra politica e sociale.
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Quali sono le fotografe che l’hanno ispirata in modo particolare?
La mia generazione, quella nata tra la fine degli anni ‘50 e primi ’60, ha molto guardato alla fotografia americana. Restando nel mondo delle fotografe per me Tina Modotti, Diane Arbus, Cindy Sherman, Francesca Woodman e Nan Goldin sono riferimenti imprescindibili. E oggi Zanele Muholi: il suo visual activism e tutta la prospettiva culturale del mondo non occidentale sono quello che più mi incuriosisce.

E tra le italiane?
Naturalmente penso alle prime fotografe che ho contattato e che, in molti casi, hanno generosamente contribuito alla struttura della collezione: Lisetta Carmi, Letizia Battaglia, Carla Cerati, Marialba Russo, Paola Agosti, Giovanna Borgese, ma anche nelle nuove generazioni Allegra Martin, Alessandra Spranzi, Marina Ballo Charmet, Francesca Rivetti, Sara Rossi, Bruna Ginammi, Luisa Lambri. Ho, naturalmente, difficoltà nel citare solo questi tra gli oltre 90 nomi presenti in collezione; soprattutto perché non poche tra le artiste più giovani sono quelle che, in controtendenza, sono già attive e presenti sul mercato internazionale, come Alba Zari, Silvia Rosi e Adelita Husni-Bey, che sono meritatamente presenti in importanti musei e collezioni internazionali, pubbliche e private. In Italia, lentamente ma con costanza e consistenza, si va consolidando l’attenzione attorno ai nomi già citati di Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Carla Cerati e, inoltre, di Lori Sammartino, anche se purtroppo si vedono storicizzate solo dopo la loro scomparsa.

Come si è evoluta, nel tempo, la sua collezione?
Ho iniziato nel 2016, mettendo in mostra circa 200 fotografie alla Triennale di Milano («L’altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2015», Ndr), seguendo con la curatrice Raffaella Perna un criterio cronologico, e toccando temi che riguardavano prevalentemente il ruolo della donna nella società. Da allora ci sono state molte nuove acquisizioni, perlopiù di artiste che utilizzano la fotografia come strumento di ricerca concettuale, come Rä Di Martino e Irene Fenara.

C’è qualche fotografa che vorrebbe aggiungere alla sua collezione?
Sì, Ketty La Rocca, i cui lavori sono focalizzati principalmente sul tema dell’identità. Anche di Linda Fregni Nagler mi piacerebbe avere un lavoro, è un’artista molto sofisticata: il suo ragionare ha molti punti di contatto con il sottotesto della collezione.
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Quanto l’ha aiutata la sua esperienza di fotografa e photo editor in questo progetto?
Nella collezione ho sviluppato quella che era stata la mia preoccupazione da fotografa, e anche la mia curiosità, sintetizzando come si sia passati, in qualche decennio, dalla fotografia tradizionale di reportage e di denuncia a quella concettuale di oggi, da qualcuno definita post-fotografia. Guardando la collezione tutto ciò è molto chiaro; è avvenuto in modo graduale ma, certo, provocato e sostenuto dalle energie e le istanze femministe degli anni ’60.

Pensa che per alcune artiste sia difficile separare ciò che fanno da ciò che sono?
Vorrei citare Nan Goldin e anche Zanele Muholi, proprio perché la loro vita si mescola anche con l’impegno politico militante. L’arte non si discosta dalla politica e dal sociale. La fotografia connaturata alle problematiche che le donne vogliono sviluppare, è un modo per veicolare ciò che si diceva durante il femminismo: che «il personale è politico». Le fotografe hanno fatto della fotografia la loro vita, ma anche la loro rivendicazione. Noi donne siamo nate con l’obbligo di rivendicare qualcosa, di opporci, o rivoluzionare, quella che era la nostra posizione subordinata. Ne «Tutta la bellezza e il dolore» (documentario di Laura Poitras sulla vita e le opere di Nan Goldin, Ndr) o nei libri di Zanele Muholi la sovrapposizione delle due cose è molto evidente. Le donne sono capaci di andare molto in profondità per mettere in discussione se stesse e la società e, nel caso della fotografia, sanno come usarla per arrivare dall’autoanalisi a uno strumento di politica e attivismo per tutte.

«Il Passaggio» (1979) di Marialba Russo

Dalla serie «I travestiti» (1965-70) di Lisetta Carmi © Lisetta Carmi, Cortesia Martini & Ronchetti

Elisabetta Oropallo, 08 marzo 2023 | © Riproduzione riservata

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