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Confesso: voglio scappare dalle mie opere

Il MoMA PS1 ospita una monografica su Mark Leckey, cinquantaduenne artista inglese vincitore nel 2008 del Turner Prize. Intitolata «Containers and their drivers», la rassegna presenta fino al 5 marzo opere dagli anni Novanta a oggi, tra cui una delle più famose dell’artista: il suo video «Fiorucci made me hardcore» (1999), sulla cultura musicale inglese tra gli anni Settanta e Novanta. 

Mark Leckey, il MoMA PS1, che ha sede in un’ex scuola, sembra la sede adatta per la sua prima importante rassegna negli Stati Uniti perché è inerente ai temi a cui lei è maggiormente interessato: la nostalgia e la subcultura dei giovani.
Penso che molto di quel che faccio abbia a che fare con un senso di presenze infestanti e quindi una scuola sembrava appropriata. Un piano della mostra è piuttosto spettrale, ma l’altro è più orientato al futuro. Vado verso il futuro ma sempre in questa risacca che mi tiene legato al passato.

Sono cambiate molte cose nella video art e nella tecnologia da quando ha realizzato «Fiorucci made me hardcore» nel 1999. Come pensa che possa essere recepito oggi, nel 2016?
Questo video nasce dalla nostalgia e ora penso che chi lo guarda provi nostalgia non solo per l’epoca rappresentata ma anche per quella in cui l’ho girato, la fine dell’era analogica. Dovetti scrivere alle persone, letteralmente, con carta e penna, per chiedere di mandarmi i loro videotape. Ho finito per avere una sorta di ossessione per questo video perché è stato molto difficile riuscire a farlo. Ora è oggetto di feticismo in modo diverso, dal punto di vista della tecnologia. È un video sulla cultura del ballo ma cerca anche di guardare le cose attraverso il modo in cui queste immagini sono realizzate e l’effetto che hanno su chi le vede.

Lei ha dichiarato l’importanza per il suo lavoro della sottocultura inglese e di identificarsi come Young British Artist.
Negli anni Novanta mi sentivo molto alienato dalla teoria critica che mi era stata insegnata all’epoca. Volevo trovare qualcosa con cui sentirmi più a mio agio e che mi assorbisse di più. E sono cresciuto con la sottocultura inglese, mi ha segnato profondamente. Era qualcosa che conoscevo piuttosto di fare finta di conoscere o capire Derrida. Ho finito per fare opere sul tentativo di scappare da esse, come il video «Fiorucci» di cui abbiamo parlato e l’installazione del 2015 «Dream English kid 1964-1999 AD». Faccio queste cose per esorcizzarle, perché non riesco più a sopportarle. Ma poi mi ritirano dentro, sono condannato.

Forse riusciremo in parte a esorcizzarle attraversando la sua mostra.
Esatto. È come una terapia di gruppo.

Victoria Stapley-Brown, 14 novembre 2016 | © Riproduzione riservata

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