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Come scoraggiare il collezionismo ed essere felici

Fabrizio Lemme

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Nel numero scorso riferivo di una situazione kafkiana che mi era capitato di patrocinare. Ne voglio narrare un’altra, meno kafkiana (non c’è un processo penale) ma non meno scoraggiante per i privati collezionisti. Nel 1995 in un’asta Finarte vengono presentati due bellissimi dipinti, databili tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, già precedentemente dichiarati di interesse storico artistico particolarmente importante. Prima di procedere alla consegna alla persona che risulta aggiudicataria, la casa d’aste fa la comunicazione di rito al Ministero ai fini dell’esercizio del diritto di prelazione, utilizzando lo strumento della raccomandata con avviso di ricevimento.

L’Amministrazione non comunica l’esercizio della propria potestà ablativa nei due mesi successivi a quando la raccomandata è stata consegnata secondo come risulta dall’avviso di ricevimento. E tale termine ha carattere perentorio. Il decreto di esercizio del diritto di prelazione interviene, peraltro, con un significativo ancorché limitato ritardo e viene impugnato, appunto per tardività, avanti la competente Autorità Giudiziaria (nella specie, si tratta del Giudice Civile Ordinario, non del Tar). Ma l’Amministrazione contesta: il ritardo non può essere computato dal termine di consegna indicato nell’avviso di ritorno della raccomandata, ma dal diverso termine risultante dai registri interni dell’Autorità interessata. Perché, infatti, l’avviso di ritorno della raccomandata possa avere effetto fidefacente sul momento della consegna, occorreva la menzione della persona del consegnatario e la sua firma (o, fatto equipollente, l’attestazione del suo rifiuto di sottoscrivere).

Il Tribunale prima, la Corte d’Appello poi, danno ragione all’Amministrazione: l’avviso di ritorno non conta nulla in mancanza dei due elementi prima indicati. Infatti, l’art. 8 del D.P.R. 655/82 recita che «l’agente postale che consegna un oggetto con avviso di ricevimento fa firmare quest’ultimo dal destinatario; se il destinatario rifiuta di firmare, è sufficiente, ai fini della prova dell’avvenuta consegna, che l’agente postale apponga sull’avviso stesso la relativa dichiarazione». Quindi, il decreto di esercizio del diritto di prelazione è da ritenere tempestivo, in quanto intervenuto nei due mesi dal diverso termine indicato nei registri interni della P.A.

Nel commentare la sentenza, premetto una considerazione preliminare: ogni qualvolta il privato contende con la P.A. su beni del patrimonio culturale, il Giudice assume una posizione di parte. 

In sostanza, il patrimonio culturale pubblico appartiene alla collettività e di questa fa parte anche il giudicante, inevitabilmente incline, in conseguenza, a privilegiarne le ragioni.

Ora, ragioniamo sull’art. 8 di D.P.R. 655; ragioniamo su un avviso di ritorno incompleto; ragioniamo sugli strumenti a disposizione del privato per accertare gli «arcana imperii» (tali sono le registrazioni interne agli uffici); ragioniamo sulla tutela dell’affidamento.

Prima considerazione: l’art. 8 cit. descrive come deve essere normalmente compilato un avviso di ritorno ma non prevede alcuna sanzione per l’inosservanza delle regole dettate. In altri termini, mentre è specificamente comminata l’inefficacia di un provvedimento di esercizio del diritto di prelazione esercitato oltre il termine di rito di due mesi, nessuna specifica nullità è prevista nell’art. 8. È lecito allora desumere tale nullità al di là della previsione di legge? Al riguardo, richiamiamo l’art. 21 septies della Legge 241/1990, in virtù del quale «è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali». Dunque, la nullità deve essere positivamente prevista o, comunque, essere integrata dalla mancanza degli elementi essenziali.

Seconda considerazione: l’avviso di ritorno contiene la firma dell’Ufficiale postale e l’indicazione della data della consegna. Dunque, è da ritenere accertato che in quella data l’ufficiale postale, che ha apposto la propria firma, abbia recapitato il plico alla P.A., anche se questa non è identificata nella persone del consegnatario. A mio avviso, il contenuto minimo dell’atto, idoneo a confermarne la validità, in questa situazione esiste appieno e dunque non è configurabile la sua «nullità strutturale».

Terza considerazione: l’aggiudicatario di una vendita all’asta di bene culturale notificato è tenuto a pagare il prezzo di quanto acquistato nelle 24 ore successive alla scadenza del termine di esercizio del diritto di prelazione. L’avviso di ritorno, tempestivamente pervenuto, ha attestato che una consegna della raccomandata, recante la comunicazione della vendita, vi è stata e che il termine di mesi due è decorso senza che l’Amministrazione esercitasse il diritto di prelazione. Può ritenersi egli legittimato, in tali circostanze, a fare quelle ulteriori ricerche tra gli «arcana imperii»?

E dove, come, quando, egli può accedere all’Ufficio spedizioni, che potrebbe impunemente cacciarlo via come «non addetto ai lavori»? Né il Tribunale né la Corte si sono poste tale interrogativo.

E allora veniamo all’ultima considerazione: la tutela dell’affidamento.

Anche il privato è portatore di un’affidabilità di quanto proviene dalla P.A. e ha i requisiti strutturali minimi per essere riconosciuto come documento genuino. Gravarlo, in tali circostanze, di ulteriori oneri; imporgli di fare ricerche presso uffici pubblici che normalmente si chiudono a riccio nei confronti degli estranei ai lavori; differire sine die i suoi adempimenti di pagamento del prezzo e quindi differire sine die anche la sospirata, dal venditore, mercede della vendita; mi sembrano gli odiosi risultati di una amministrazione che vessa il privato anche al di là dei limiti di legge.

Non bisogna essere Adamo Smith per rifiutare una simile funzione pubblica che, come il Leviathan di Tommaso Hobbes fagocita il pover’uomo qualunque.

Fabrizio Lemme, 10 aprile 2017 | © Riproduzione riservata

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