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Ce li meritiamo i cloni cinesi

Basta andare all'estero per vedere come da noi si sia imbastardito il concetto di grande mostra

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Flaminio Gualdoni

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Che cosa distingue una grande mostra là da una grande mostra qua? Più o meno questo: là c’è, all’incirca, tutto quello che dovrebbe esserci, qua gli stessi nomi, ma tutte robe che se non le vedevi era lo stesso.

Faccio queste meditazioni mentre sulle pareti della Royal Academy di Londra cammino tra i cinque metri di «Blue poles», un Pollock di data perfetta, 1952, e lo strepitoso «No. 15» di Rothko, 1957: e a pochi passi c’è il mitologico e seminale «Woman II» di De Kooning: e c’è pure Lee Krasner, che da noi neanche metterebbero perché, come ho sentito dire una volta a uno che insegna all’università il mestiere di far mostre, questa «tanto non se la fila nessuno». Nessuno si filerebbe anche John Gibson, scultore neoclassico cui lo stesso posto dedica un’altra mostra fatta come si deve, e infatti noi ci asteniamo rigorosamente dall’occuparci di gente come Lorenzo Bartolini e Pietro Tenerani, per dire, facciamo giusto ogni tanto Canova per via delle chiappe di Paolina. Poi penso anche che, proprio come fossimo primi ministri qualsiasi, a noi basta raccontarci che funzioniamo come il resto d’Europa, non farlo davvero.

Non è sconsolante constatare come si sia imbastardito il concetto di grande mostra dalle nostre parti, quello che fa girare i cabasisi è che c’è qualcuno che se la tira come se fossimo chissà chi, mentre le nostre mostre sembrano tristanzuoli cloni cinesi di robe fatte bene. Proprio la Royal Academy è un indicatore perfetto di dove sta il nostro casino mentale. Loro non dicono mai «piove, governo ladro» perché sono un’associazione privata, che mette su in un anno oltre dieci milioni di sterline, leggo dal report 2014-2015, con mostre come Kiefer, che ha fatto quasi duecentomila visitatori, ma anche con Allen Jones, che ha passato appena i quarantamila ma era una gran mostra. Perché da loro il fundraising funziona davvero, mentre qui facciamo l’ArtBonus, che è una specie di minimo sindacale, e nessuno si fila neanche quello: come dire che dalla loro «società civile» l’arte è considerata uno human right fondamentale e tutti, dico ricchi e anche meno abbienti, mettono mano al portafoglio, e da noi, posto che esista una roba che si può chiamare «civile», l’arte e giusto qualcosa con cui passare la domenica pomeriggio se non vuoi andare al cinema: e quanto ai nostri grandi imprenditori, basta pensare alle loro facce e ai loro discorsi, e «ça suffit». Poi alla R.A. fanno anche una cosa che si chiama «effective management of costs» (materia che si son dimenticati di inserire, nei nostri succitati corsi universitari), che è quella faccenda per cui non occorrerebbe mai farla neppure, la mitica «spending review», mentre qui è un’altra delle numerose cose che basta dirle ma guai a farle.

Se c’è una cosa in cui la nostra «società civile» è davvero lo specchio dei suoi politici è la capacità sovrana di esser fortissima in teoria delle virtù, tanto forte da non sentire il bisogno di farne pratica. Uno dice: grazie al ciufolo, Londra è una grande metropoli e se lo può permettere. Però con tutti i pipponi che mi sento sin da piccolo sulle virtù civiche dei miei concittadini milanesi, anche da noi qualche vaccata in meno e qualche empito culturale in più ci starebbe senza fatica. E poi, senza andare a Londra, basta Lugano per far pensieri rannuvolanti. Quelli sono 55mila, cioè a un dipresso gli abitanti di Mantova o Avellino, e in tutto il Canton Ticino mettono insieme meno degli abitanti di Bologna, per dire. Ma hanno un museo che fa una bella mostra di Signac (si vede che sono un po’ italiani perché nel titolo si son dimenticati di avvertire che è un’unica collezione privata, ma per il resto è una gran bella cosa) e una mostra straordinaria di Antonio Calderara, una parata di duecento opere di un grande artista nato dalle nostre parti, sul Lago d’Orta. Si fa là perché da noi la risposta tipo sarebbe che «tanto non se lo fila nessuno», quindi inutile perder tempo: meglio i cloni di mostre alla cinese.

Flaminio Gualdoni, 10 novembre 2016 | © Riproduzione riservata

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