Biennale di Sharjah: una costellazione postcoloniale

La 15ma edizione, ispirata da Okwui Enwezor, è una ricca enciclopedia di storie, identità ed espressioni ad alto contenuto informativo eppure in grado di creare connessioni intuitive e di emozionare

Veduta dell’installazione «Imperiled Geographies» (2022), di Lawanya Mani, alla Sharjah Biennial 15 (2023). Cortesia della Sharjah Art Foundation. Foto: Motaz Mawid
Maurita Cardone |  | Sharjah

La Storia è fatta di una moltitudine di storie individuali e leggerla nella molteplicità delle sue versioni significa poter creare una contemporaneità policentrica. È con una galassia di storie che sovvertono le gerarchie eurocentriche che la 15ma edizione della Biennale di Sharjah, la prima postpandemia, si inserisce nella conversazione globale, guardando al passato con i piedi ben piantati nel presente. La mostra si è aperta il 7 febbraio (fino all’11 giugno) con 300 lavori di oltre 150 artisti, esposti in cinque diverse zone dell’emirato.

Un unico tema, «Thinking Historically in the Present», pensare storicamente in un presente definito da quella costellazione postcoloniale teorizzata da Okwui Enwezor, il critico e curatore scomparso nel 2019, che ha ispirato l’idea curatoriale. Questa edizione rappresenta una pietra miliare per la biennale emiratina e allo stesso tempo ne conferma il radicamento in un presente in cui la manifestazione continua a evolversi e a farsi portatrice delle istanze della contemporaneità del Sud del Mondo. Un’edizione che segna anche il 30mo anniversario della biennale e il 20mo sotto la direzione di Hoor Al Qasimi, che quest’anno ne è anche curatrice.

Quest’anno la biennale si espande a nuovi territori, al di fuori del centro urbano di Sharjah, nelle cittadine della costa Est e in aree rurali. Un allargamento fortemente voluto dalla direttrice e curatrice che da sempre supporta la diffusione della cultura in tutto il territorio dell’emirato e che ha fatto una missione di recuperare quanto più possibile del patrimonio architettonico di un Paese noto più per il suo slancio verso il futuro che per la conservazione del passato. E anche per questo il tema di quest’anno suona particolarmente significativo per un’edizione che conferma definitivamente la maturità di questa biennale che, da un Paese proiettato verso il domani, guarda verso traiettorie culturali e geografiche in grado di ridisegnare l’oggi e i tanti ieri che le hanno a lungo condizionate.

Per tracciare la mappa di questa contemporaneità, la curatrice ha selezionato artisti e opere, molte commissionate per l’occasione, che offrono letture e punti di vista che reinterpretano i concetti di identità, nazionalità, appartenenza, potere e che sono, in sintesi, espressione di quella costellazione postcoloniale identificata da Enwezor che si manifesta in una riappropriazione della narrative soggettive. Così, nelle diverse sedi che accolgono la biennale, trovano spazio lavori che raccontano versioni ancora inascoltate della Storia, come fa Hoda Afshar in «Remain», un’opera video che esplora la vita dei richiedenti asilo detenuti dal governo australiano sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea; o come fanno Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme in «Until We Became Fire and Fire Us», ripercorrendo le diverse forme di distruzione subite da un villaggio palestinese; o ancora Nina Fischer e Maroan el Sani in «Freedom of Movement», che mette in relazione il momento in cui l’etiope Abebe Bikila, correndo a piedi nudi, vinse la maratona alle Olimpiadi di Roma del 1960 con i segni architettonici dell’arroganza coloniale fascista.

Altrove, la Storia viene raccontata attraverso l’intimità di vicende personali fatte di migrazioni e ibridazioni, come quella di Tania El Khoury, raccontata attraverso il dispositivo narrativo di una serie di cassette di sicurezza che custodiscono le memorie dell’artista e che lo spettatore apre per immergersi in esperienze multisensoriali che ripercorrono le vicende della famiglia dell’artista tra il Libano e il Messico. O come la storia della famiglia di Almagul Menlibeyava che, in «The Tongue and Hunger. Stalin’s silk road», racconta della carestia che negli anni Trenta colpì il Kazakistan a seguito della forzata sedentarizzazione e integrazione nell’Unione Sovietica delle popolazioni nomadi. E ancora quella della famiglia di Archana Hande che, in «All is Fair in Magic White», attraverso disegni e animazioni e con giocosa ironia, racconta una Mumbai definita dal colore della pelle e da divisioni importate dal colonialismo.

Ognuna di queste storie viene trattata con rispetto e attenzione, evitando rigide categorizzazioni geografiche (le didascalie non contengono indicazione dei Paesi di provenienza degli artisti) e lasciando a ogni artista la possibilità di trovare la propria dimensione negli spazi messi a disposizione dalla Sharjah Art Foundation, che organizza la biennale e la ospita nelle sue diverse sedi. Nonostante il grande numero di lavori esposti, la mostra non risulta mai affollata, le opere respirano, occupando gli spazi armonicamente. Ognuno dei luoghi che ospitano la mostra ha la sua identità con cui le opere che vi sono installate sono intelligentemente in dialogo.

Così, per esempio, nell’ex mercato della verdura, si trovano lavori che usano il cibo come medium o elemento narrativo, nelle due sedie della biennale nell’oasi di Al Dhaid trovano spazio opere che si occupano di temi ambientali o affrontano il rapporto con la terra, nell’edificio modernista della zona di Sharjah un tempo destinata alle banche si trovano alcuni lavori che affrontano il tema del denaro e del controllo economico, come «A Man Without a Country» di Hyesoo Park, installazione composta da una pila di frammenti di banconote coreane a rappresentazione dei sogni di prosperità dei disertori nordcoreani fuggiti in Corea del Sud.

Tra le varie sedi della mostra, grandi nomi di richiamo, tra cui Nari Ward, Doris Salcedo, Ibrahim Mahama, Kerry James Marshall, Carrie Mae Weems, Lubaina Himid, Wangechi Mutu, cui sono state affidate installazioni di larga scala, di cui molte site specific e di grande effetto, si alternano artisti i cui lavori ci portano da Haiti alla Colombia, dal Madagascar all’Iran. Ricca di fotografia e di opere video al confine con il documentario, la Sharjah Biennial offre numerose occasioni per esplorare narrative critiche dei modelli globali dominanti. Da un ambiente all’altro, da un artista all’altro, il tema della biennale si materializza in decine di variazioni fino a rischiare, a tratti, di ripetersi e ripiegarsi su sé stesso.

E tuttavia è vero che quella costellazione postcoloniale è complessa e ricca di stelle, ognuna con una sua storia fagocitata dalla versione raccontata dai vincitori e che oggi merita di essere finalmente ascoltata. Ne risulta una biennale che è una ricca enciclopedia di storie, identità ed espressioni, ad alto contenuto informativo eppure in grado (almeno nella maggior parte dei casi) di creare connessioni intuitive e di emozionare. Con trent’anni alle spalle, quella di Sharjah è una biennale adulta e forte di un’identità e di un punto di vista unici e, se salta agli occhi che alcune questioni restano assenti, in un’area del mondo dove la libertà di espressione non è scontata, non si può che fare un passo alla volta.

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